• [as] intersezioni: Misure vulcaniche

    [as] intersezioni
    Misure vulcaniche.

    di Giovanni Macedonio
    ricercatore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv)

    La radiografia muonica rappresenta uno strumento innovativo per investigare l’interno dei vulcani. Essa può essere utilizzata in associazione con altre tecniche di indagine geofisica, come la tomografia sismica, le indagini geoelettriche, la magnetotellurica e le misure del campo gravitazionale. In particolare, la radiografia muonica permette di ottenere una misura indipendente della distribuzione della densità dell’interno del cono vulcanico ed evidenziare la presenza di eventuali condotti attraverso i quali può scorrere il magma. La conoscenza della struttura interna del vulcano ci permette non solo di comprendere la dinamica delle precedenti eruzioni, ma anche di interpretare le osservazioni e i segnali sismici associati al passaggio del magma all’interno della struttura. Infatti, il magma è costituito da roccia fusa con bolle di gas e cristalli al suo interno. La presenza delle bolle modifica la densità del magma, che dipende principalmente dalla frazione di volume del gas al suo interno. Durante il moto del magma all’interno del vulcano e la sua interazione con le pareti dei condotti, si producono oscillazioni della struttura vulcanica, con frequenze che dipendono dalle dimensioni e forma dei condotti e dalla quantità di bolle di gas contenute nel magma. L’analisi di queste oscillazioni, registrate dai sismometri dislocati sulle pareti del vulcano, permette di diagnosticare la presenza del magma in movimento e di evidenziare eventuali situazioni di pericolo. Il gas, prevalentemente costituito da vapore acqueo e anidride carbonica, rappresenta il motore delle eruzioni perché è proprio il gas che, con la sua espansione, trasporta il magma in superficie. Inoltre, la quantità di gas contribuisce a definire lo stile eruttivo: essa è bassa nelle eruzioni effusive (colate di lava), in cui il magma fuoriesce dal cratere come una schiuma viscosa, ed è più alta nelle eruzioni esplosive in cui il magma fuoriesce dal cratere sotto forma di un getto di gas e magma frammentato. È molto importante, quindi, conoscere sia la geometria dei condotti vulcanici, sia il valore della densità del magma per stimare la quantità di gas presente al suo interno. Da questo punto di vista, la radiografia muonica costituisce un ottimo strumento di indagine, in quanto fornisce direttamente un’immagine che rappresenta la mappa della densità dell’interno del vulcano. Parallelamente, anche le misure del campo di gravità forniscono informazioni sulla densità delle zone sottostanti e, per questo motivo, possono essere associate alla radiografia muonica. Le misure di gravità sui vulcani vengono solitamente effettuate con periodiche campagne di misura, durante le quali vengono misurati contemporaneamente, in decine o centinaia di punti, il valore dell’accelerazione di gravità e le coordinate del punto di misura. Queste ultime sono necessarie soprattutto per la correzione della variazione del valore dell’accelerazione di gravità con la quota. Le informazioni sulla densità dell’interno del vulcano si ottengono successivamente tramite opportuni modelli di inversione. Attualmente, i metodi di integrazione dei dati di radiografia muonica con le misure della gravità sono oggetto di ricerca scientifica, come lo sono, in generale, tutti i metodi di integrazione dei dati tra le diverse tecniche di indagine geofisica.
     
    a.
    Lo strumento con cui nell’aprile 2013 è stata fatta una presa dati dimostrativa sul Vesuvio, il prototipo Mu-Ray sviluppato dall’Infn. Il rivelatore di muoni è formato da 384 scintillatori plastici letti da fotomoltiplicatori al silicio. Il consumo dell’intero apparato è sufficientemente basso da funzionare senza essere connesso alla rete elettrica. All’interno del progetto premiale Infn-Ingv Muraves entro il 2017 è prevista l’installazione sul Vesuvio di tre rivelatori con quattro piani traccianti da 1 m2 ciascuno. I nuovi rivelatori sono una versione migliorata del prototipo Mu-Ray.
     

    È di particolare interesse la possibilità di poter costruire, con un approccio multiparametrico, un modello dell’interno del vulcano che tenga conto delle diverse proprietà delle rocce e dei fluidi presenti al suo interno. Le rocce e i fluidi, infatti, sono caratterizzati oltre che dalla densità, anche da altre proprietà meccaniche, elettriche e magnetiche. Tra queste, la rigidità delle rocce, insieme alla loro densità, determina la velocità di propagazione delle onde sismiche misurabili dalle differenze dei tempi di arrivo dei terremoti alle varie stazioni sismiche dislocate sul vulcano. La resistività elettrica delle rocce determina la quantità di corrente che attraversa il sottosuolo, in risposta alle differenze di potenziale elettrico applicate a opportuni elettrodi posti sulla superficie del vulcano durante le misure geoelettriche, mentre le proprietà magnetiche delle rocce influenzano il valore del campo magnetico terrestre, anche esso misurabile in superficie. Infine, attraverso la tecnica della magnetotellurica si registrano le variazioni del campo elettromagnetico dovute all’interazione tra le rocce del sottosuolo e le onde elettromagnetiche prodotte dalla ionosfera, fornendoci informazioni sulle proprietà elettromagnetiche delle rocce alle diverse frequenze e delle loro variazioni in funzione del tempo (per esempio in prossimità di un’eruzione). Sarà proprio l’integrazione di tutte queste informazioni che ci permetterà di conoscere meglio l’interno dei vulcani e ottenerne un modello di dettaglio. Attualmente, uno degli aspetti più interessanti della radiografia muonica è la possibilità di ottenere direttamente un’immagine radiografica dell’interno del vulcano, senza la necessità di utilizzare complessi modelli di inversione. A partire da queste immagini, oggi bidimensionali, sarà possibile costruire immagini tridimensionali dell’interno del vulcano attraverso l’utilizzo di più rivelatori posti in diversi punti di osservazione. Infine, a differenza delle altre tecniche, la radiografia muonica permette di osservare l’interno del vulcano “da remoto”, senza la necessità di accedere alle aree sommitali. Questa caratteristica rende la radiografia muonica potenzialmente idonea al monitoraggio durante una crisi vulcanica, quando si evidenza il rischio di una possibile eruzione.

     
     

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  • [as] radici: Muoni sotto le bombe.

    [as] radici
    Muoni sotto le bombe.

    di Giovanni Battimelli
    storico della fisica

    a.
    Marcello Conversi e Oreste Piccioni nello scantinato del liceo Virgilio. Il luogo fu scelto anche per la sua vicinanza al Vaticano, che gli alleati non avrebbero mai osato bombardare.
    “La mia opinione personale è che la moderna fisica delle particelle abbia avuto inizio negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, quando un gruppo di giovani italiani, mentre si nascondevano alle truppe di occupazione tedesche, cominciarono un notevole esperimento.”, commentò Luis Alvarez, in un passaggio del suo discorso di accettazione del premio Nobel. Si riferiva a un risultato pubblicato nel febbraio 1947 su Physical Review: una breve nota a firma di Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni dal titolo “On the Disintegration of Negative Mesons”. Nell’articolo veniva comunicato l’esito di un esperimento, che avrebbe sconvolto radicalmente il panorama della fisica delle particelle. Il mondo dei costituenti elementari della materia si era arricchito, negli anni ’30, di alcuni nuovi componenti: all’elettrone e al protone si erano aggiunti via via il neutrone, il positrone, il neutrino (allo stato di oggetto teorico, non ancora identificato sperimentalmente) e infine il mesotrone. La “ragion d’essere” del mesotrone (ben presto ribattezzato mesone, vd. anche Una vita da mediano, ndr) era stata fornita dalla teoria di campo di Yukawa, che prevedeva come mediatore delle interazioni forti dei nuclei una particella massiva assai simile al mesotrone dei raggi cosmici.

    Nell’ipotesi che il mesotrone fosse la particella di Yukawa la teoria sviluppata da Sin-Itiro Tomonaga e Gentaro Araki prevedeva un ben definito comportamento dei mesoni dei raggi cosmici in presenza di un materiale assorbente. In particolare, si sarebbe dovuta registrare una netta differenza tra mesoni positivi e negativi: i primi non avrebbero potuto interagire con i nuclei a causa della repulsione elettrostatica, e avrebbero quindi dovuto decadere nell’assorbitore, mentre i secondi avrebbero dovuto subire il processo di cattura nucleare senza avere il tempo di decadere spontaneamente. Ma i risultati ottenuti dai fisici di Roma mostravano che i mesoni a fine percorso non si comportavano affatto secondo queste previsioni. La collaborazione tra i tre fisici era cominciata nei primi anni della guerra, con la messa a punto della strumentazione necessaria per lo studio della vita media del mesotrone, in particolare l’elettronica veloce e i circuiti di coincidenza. Dopo il bombardamento di San Lorenzo del luglio 1943, che aveva coinvolto gli edifici della nuova città universitaria, tutta l’apparecchiatura fu trasportata negli scantinati del liceo Virgilio nei pressi del Vaticano. Qui la misura della vita media fu effettuata da Conversi e Piccioni (Pancini si era spostato al nord dopo l’8 settembre, combattendo come comandante di una formazione partigiana in Veneto), durante i mesi dell’occupazione tedesca di Roma, nell’inverno 1943-1944, ottenendo un risultato comparabile con quello che negli stessi mesi avevano ottenuto Rossi e Nereson negli Stati Uniti. I due passarono quindi allo studio del comportamento dei mesoni arrestati in un assorbitore di ferro, e i risultati ottenuti in questo secondo esperimento sembravano in pieno accordo con le previsioni teoriche: la metà circa dei mesoni in arrivo dava segno di prodotti di decadimento. Una prova più convincente di questo effetto fu ottenuta in un terzo esperimento, condotto nel 1945 dopo la liberazione, in rinnovata collaborazione con Pancini, in cui furono utilizzate delle lenti magnetiche per selezionare i mesoni in funzione della carica e studiare separatamente il comportamento delle particelle positive e negative. L’evidenza confermava nettamente le previsioni di Tomonaga e Araki: i mesoni positivi decadevano, i negativi erano “mangiati” dai nuclei.

    Per studiare il meccanismo di cattura nucleare dei mesoni negativi, che secondo le incerte previsioni dei teorici avrebbe potuto dare luogo all’emissione di radiazione gamma, i tre decisero di ripetere l’esperimento usando come assorbitore, anziché il ferro, un materiale più leggero, come il carbonio, trasparente a questa radiazione. E qui registrarono il dato completamente inatteso: nel carbonio non si evidenziava alcuna differenza tra mesoni di diversa carica, tutti decadevano allo stesso modo senza che i negativi mostrassero sensibili tracce di cattura nucleare. Il risultato fu comunicato per lettera ad Edoardo Amaldi, in visita negli Stati Uniti nella seconda metà del 1946. Per suo tramite raggiunse i fisici americani ancora prima della pubblicazione sulla Physical Review, e ne seguì un’immediata reazione di nuove ipotesi teoriche e ricerche sperimentali. Fermi, Teller e Weisskopf provarono che l’anomalo comportamento dei mesoni negativi nel carbonio non poteva essere spiegato in alcun modo se si manteneva l’ipotesi che si trattasse della particella di Yukawa, perché il calcolo del tempo di cattura nucleare mostrava che questo avrebbe dovuto essere più breve della vita media del mesone di qualcosa come dodici ordini di grandezza. Bethe e Marshak formularono la teoria a due componenti del mesone, secondo cui i mesotroni osservati a livello del mare, quelli dell’esperimento di Roma, sarebbero i prodotti secondari, non soggetti all’interazione forte, del decadimento di un altro tipo di mesoni primari, da rintracciare negli strati alti dell’atmosfera. Queste sarebbero state le “vere” particelle previste da Yukawa, chiamate poi mesoni-π o pioni. E, puntualmente, le tracce di queste particelle furono subito individuate in emulsioni nucleari esposte in quota da Perkins, e da Occhialini e Powell. Ma l’interrogativo aperto era soprattutto quello relativo alla natura del mesone secondario (denominato in seguito mesone-µ, o muone), e alla sua collocazione nella gerarchia dei costituenti elementari, in cui non sembrava esserci più posto né giustificazione per un oggetto simile. L’esperimento di Conversi, Pancini e Piccioni dava inizio in tal modo a una fase completamente nuova della ricerca in fisica fondamentale, aprendo la strada allo studio delle proprietà delle particelle come il muone che oggi chiamiamo leptoni e alla comprensione dell’universalità delle interazioni deboli.

     
    b.
    Le lastre magnetiche originali utilizzate da Conversi, Pancini e Piccioni per il loro esperimento, conservate al Museo del Dipartimento di Fisica della Sapienza, a Roma.
     
     

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  • [as] traiettorie: Dalle stelle alle star.

    [as] traiettorie
    Dalle stelle alle star.

    di Francesca Mazzotta

    a.
    Ioannis Katsavounidis nello stabilimento di Netflix a Los Gatos, in California.

    Ioannis Katsavounidis, oggi responsabile di un innovativo progetto di Netflix sulla compressione video (“video encoding”), ha lavorato per quattro anni a Macro, un esperimento dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso (Lngs) dell’Infn che studiava nel dettaglio particelle penetranti della radiazione cosmica, muoni e neutrini. “Molte delle cose che ho imparato lavorando a Macro ai Lngs sono riemerse nelle fasi successive della mia carriera e mi hanno aiutato a risolvere problemi in altri campi di ricerca”.

     

    [as]: Di cosa ti sei occupato nel corso dell’esperimento Macro?


    [Ioannis]: Ho lavorato sia sul hardware sia sul software degli scintillatori di Macro. Tutti i segnali che arrivano sui rivelatori a scintillazione devono essere interpretati attraverso una serie di coefficienti, le “costanti di calibrazione”, che permettono di ricostruire con precisione l’energia e la posizione delle particelle rivelate. La qualità delle
    costanti di calibrazione determina la qualità dell’analisi dei dati sperimentali. Migliorando l’hardware e riscrivendo il software del sistema di calibrazione abbiamo abbassato considerevolmente il margine di errore sull’analisi dei dati raccolti dalle particelle penetranti rivelate, dei muoni in particolare. Credo che questo sia stato il mio contributo più importante a Macro. Posso affermare che anche grazie a questo lavoro l’analisi dei dati sperimentali di Macro ha raggiunto un livello di qualità tale da essere pubblicata sulle migliori riviste internazionali di fisica.

    [as]: E come sei passato dalla ricerca di base allo sviluppo di tecnologie di encoding?


    [I]: Il mio campo di ricerca è stato da sempre l’analisi dei segnali, e segnali sono sia quelli che arrivano dai muoni cosmici sia quelli di un video. Nel 2000 uno dei miei professori della University of Southern Califonia ha fondato una start up che lavorava sull’analisi dei segnali video e mi ha contattato, proponendomi di lavorare insieme. Ci ho pensato un po’ e ho deciso di provarci. Sono rientrato negli Stati Uniti e da allora ho sempre lavorato nel campo del video processing.

    [as]: C’è qualcosa che accomuna pixel e neutrini?


    [I]: Pur essendo entrambi piccolissimi, i neutrini sono infinitamente più piccoli dei pixel. Entrambi sono però molto interessanti, i pixel creano le immagini che diventano video e i neutrini sono dappertutto. E sia i neutrini sia i pixel richiedono tantissima attenzione per essere analizzati.

    [as]: Su cosa stai lavorando ora a Netflix?


    [I]: Stiamo lavorando a un progetto chiamato “cellular encoding” da circa dodici mesi. Il nostro obiettivo è codificare i contenuti multimediali di Netflix nel formato più adatto ai cellulari, che solitamente presentano una bassa banda di rete. Per farlo partiamo da un nuovo codice di Google, VP9, che esegue una prima riduzione del volume di dati necessario per la riproduzione di un video. Diminuiamo poi ulteriormente questo volume grazie a una combinazione di algoritmi chiamata “Dynamic Optimization”. In un primo momento il Dynamic Optimizer analizza il video per trovare dei segmenti, dei “video shot”, dal contenuto omogeneo, ad esempio quei pochi secondi in cui la macchina da presa del regista sta riprendendo una persona prima di spostarsi su un’altra. Ogni video shot è poi codificato in risoluzioni multiple. Si ottengono così tantissime versioni di un singolo video shot che sono successivamente valutate in termini di qualità percepita da un algoritmo sviluppato da Netflix, il Vmaf (Video Mutimethod Assessment Fusion). Il Dynamic Optimizer calcola infine la combinazione ottimale per mettere insieme tutti i segmenti del video ottenendo il risultato sperato: una codifica con il minimo volume di dati.

    [as]: E come si è arrivati a questo risultato?


    [I]: Come in tutte le ricerche scientifiche, il punto di partenza sono stati gli esperimenti. Inizialmente abbiamo raccolto dati sulle caratteristiche dei video per poi sviluppare un parametro di misura di qualità percepita dall’occhio umano (il Vmaf). Abbiamo poi creato un prototipo del sistema con
    il quale abbiamo fatto dei test preliminari. Quando è stato evidente che il prototipo funzionava, abbiamo aggiunto altre componenti, ottenendo un sistema più complesso da testare su un maggior numero di video con caratteristiche diverse, dai cartoni animati ai film d’azione. Le sequenze ottenute con questo sistema sono state poi riprodotte su dei cellulari per verificarne la qualità. I test sono stati un successo e abbiamo così deciso di presentare i nostri risultati al Mobile World Congress di Barcellona nel febbraio 2017.

    [as]: Il tuo percorso è una chiara dimostrazione del forte legame tra ricerca di base e innovazione tecnologica. Come si potrebbe incoraggiare in Europa una maggiore comunicazione tra questi due campi?


    [I]:
    L’Europa è molto forte nel campo della ricerca di base. Ma le aziende europee non investono abbastanza nell’innovazione tecnologica e non fanno abbastanza per attrarre ricercatori. Questo accade invece negli Stati Uniti, e così tanti ricercatori attraversano l’oceano Atlantico per trovare aziende più forti. In Europa, dovrebbero esistere più incentivi per le aziende. Si dovrebbe consentire una maggiore flessibilità nell’assumere,
    o anche licenziare, se necessario, persone nuove. Creare un gruppo di ricerca in un’azienda può essere molto costoso, quindi una collaborazione economica tra aziende, università ed enti di ricerca potrebbe rappresentare un incentivo per le prime.

     
    b.
    L’esperimento Macro nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn, dove Ioannis ha lavorato alla fine degli anni ’90.
     
     

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  • A caccia dell’anomalia del muone negli Usa

    Copia di Muong 2 2017L’esperimento Muon g-2 che studia il momento magnetico del muone festeggia oggi una tappa fondamentale. I primi fasci di muoni prodotti dall’acceleratore del Fermilab hanno circolato nel grande magnete superconduttore: è l’inizio di un’affascinante sfida per confermare o sconfessare un’anomalia misurata all’inizio degli anni 2000 dal primo esperimento di questo tipo. All’esperimento l’Infn partecipa con ricercatori dei Laboratori Nazionali di Frascati e delle sezioni Infn di Lecce, Napoli, Pisa, Roma Tor Vergata, Trieste e il gruppo collegato di Udine.

    All’inizio degli anni 2000, i fisici del Brookhaven National Laboratory di Upton, nello Stato di New York, misurando il momento magnetico anomalo del muone (una proprietà di questa particella) hanno trovato che la probabilità che il valore misurato fosse compatibile con le previsioni del modello standard era inferiore di 1/1000. Un risultato non sufficiente per costituire una scoperta ma da approfondire. Questa discrepanza potrebbe, infatti, essere spiegata dal contributo all’anomalia del muone di particelle tuttora ignote, come le particelle supersimmetriche, o altre nuove particelle che potrebbero spiegare la materia oscura. La soluzione definitiva a questo enigma è affidata all’esperimento Muon g-2 che misurerà l’anomalia del muone con una precisione mai raggiunta prima d’ora (140 parti per miliardo ). Nelle prossime settimane l’esperimento sarà sottoposto a una fase di test per verificare il corretto funzionamento della macchina e del sistema di produzione del fascio di muoni, dell’anello di accumulazione e dei rivelatori. Nel corso del prossimo anno sono attesi i primi risultati di fisica.

    "Il gruppo Italiano, con 28 ricercatori, è coinvolto in prima linea nell'esperimento Muon g-2 fin dall'inizio, contribuendo con la progettazione e realizzazione di un sofisticato e innovativo sistema di calibrazione per i 24 calorimetri che costituiscono una parte essenziale del sistema di misura dell'esperimento,” commenta Graziano Venanzoni, responsabile Infn dell’esperimento. “Oggi è una giornata storica che ci ripaga di tanti sforzi fatti. Non vediamo l'ora di iniziare la presa dati e di mettere alle corde il modello standard". [Eleonora Cossi]

     

    Per approfondimenti vd. anche Un mare di antimateria.

  • A stretto raggio

    A stretto raggio
    Dalla spettroscopia muonica al raggio del protone

    di Aldo Antognini ed Elisa Rapisarda

    a.
    Rappresentazione artistica dell’atomo muonico (in alto) e dell’atomo di idrogeno (in basso). Le densità dei pallini rappresentano schematicamente le probabilità di trovare un muone (pallini rossi) o un elettrone (pallini gialli) a una certa distanza dal protone rappresentata in scala logaritmica. Poiché in media la distanza del muone è duecento volte più piccola rispetto a quella dell’elettrone, la probabilità di trovare il muone all’interno della regione occupata dal protone è maggiore, accentuando la sensibilità dei livelli atomici al valore del raggio del protone.
    Un atomo è formato da un nucleo (carico positivamente) attorno cui orbitano gli elettroni. Che cosa succederebbe se al posto degli elettroni intorno al nucleo orbitassero dei muoni negativi? Non è fantascienza, ma qualcosa che i fisici riescono davvero a creare in laboratorio: è l’atomo “muonico”, un atomo esotico in cui al posto dell’elettrone c’è un muone negativo legato dalla forza elettromagnetica al nucleo. Il muone, infatti, è una particella fondamentale come l’elettrone, i neutrini e i quark e interagisce in maniera simile all’elettrone: stessa interazione elettromagnetica, stessa interazione debole e nessuna interazione forte. Però è 200 volte più pesante dell’elettrone. Poiché i raggi orbitali sono inversamente proporzionali alla massa della particella che si muove attorno al nucleo, l’orbita del muone in un atomo muonico è 200 volte più piccola dell’orbita di un elettrone in un analogo atomo elettronico (cioè un atomo ordinario). Il muone orbita quindi molto vicino al nucleo e i suoi livelli energetici sono fortemente influenzati dalla struttura nucleare. Un parametro nucleare come la dimensione del nucleo può allora essere determinato dalla misura molto precisa dei livelli energetici dell’atomo muonico e dal loro confronto con le previsioni teoriche. Queste sono estremamente accurate dal momento che l’atomo muonico è un sistema a due corpi, la cui interazione è nota. Perché si formi un atomo muonico in laboratorio è necessario che un muone, attraversando la materia, perda tutta la sua energia cinetica in modo da poter essere catturato nel potenziale elettrostatico del nucleo. Questo è del tutto analogo a ciò che successe in natura, trecentomila anni dopo il Big Bang, agli elettroni che costituirono i primi atomi ordinari. Gli atomi muonici si formano in stati altamente eccitati. Nel decadere da un livello energetico eccitato allo stato fondamentale, il muone emette raggi X (fotoni) caratteristici dell’atomo, con energie che, a seconda della carica nucleare, possono raggiungere anche diversi MeV. L’osservazione di questi raggi X fu la prima prova sperimentale della formazione degli atomi muonici. Sebbene le prime osservazioni fossero effettuate utilizzando i muoni dei raggi cosmici, solamente la disponibilità in laboratorio di intensi fasci di muoni consente di raggiungere un’alta precisione sperimentale.
     
    b.
    Visione aerea del Paul Scherrer Institut, nei pressi di Zurigo (in Svizzera), dove ancora oggi la fisica degli atomi muonici viene coltivata assiduamente.
     

    La misura dei raggi X muonici fu un campo di ricerca estremamente attivo dagli anni ’50 fino agli anni ’80 presso grandi laboratori come il Cern, la Columbia University, la University of Chicago, il Los Alamos e il Paul Scherrer Institut (Psi). Sebbene questa intensa attività sia giunta a una fine negli anni ’80, in concomitanza, da un lato, con la chiusura di grandi canali di produzione di fasci di muoni come il sincrociclotrone del Cern e il ciclotrone di Chicago e, dall’altro, con il sempre più diffuso interesse verso le collisioni ad alta energia, la fisica degli atomi muonici continua a essere coltivata ed è ancora molto vivace al Psi. Il lavoro sperimentale di quegli anni portò alla misura dei raggi X muonici di quasi tutti gli elementi stabili, eccetto i più leggeri, l’idrogeno, l’elio e il litio, e poche altre eccezioni. Le prime misure furono effettuate usando scintillatori. Successivamente, l’avvento di rivelatori al germanio permise un significativo miglioramento dell’accuratezza e della precisione di rivelazione degli spettri energetici muonici consentendo, a sua volta, un notevole avanzamento nella comprensione dell’atomo muonico e dei relativi effetti nucleari. Oggi, il progetto muX al Psi mira a estendere questa tecnica a elementi instabili sfruttando la disponibilità di spettrometri gamma ad alta efficienza di rivelazione e sviluppando un nuovo metodo di produzione degli atomi muonici. Sempre al Psi, la collaborazione Crema a partire dal 2000 ha sviluppato una tecnica pioneristica, basata sulla spettroscopia laser, che permette la misura delle transizioni energetiche in atomi muonici leggeri. Con tale tecnica la collaborazione ha ricavato con successo il raggio del protone, misurando la transizione tra due livelli denominati 2S e 2P nell’atomo di idrogeno muonico. In questo esperimento, un impulso laser viene utilizzato per indurre la transizione del muone dal livello atomico 2S al livello 2P, dal quale il sistema decade spontaneamente nello stato fondamentale emettendo un raggio X. Tale processo avviene solamente se la frequenza del laser è uguale alla frequenza della transizione atomica. Questa può dunque essere determinata con grande precisione osservando il picco dei raggi X emessi. La dimensione finita del protone (il nucleo dell’idrogeno) introduce una piccolissima correzione nei livelli atomici e nelle frequenze di transizione, proporzionale al quadrato del raggio del protone. Tale correzione è dovuta al fatto che la funzione d’onda della particella orbitante (l’elettrone nell’idrogeno ordinario, il muone nell’idrogeno muonico) penetra nella regione di spazio occupata dal protone. Poiché, come abbiamo detto, il muone è mediamente più vicino al protone rispetto all’elettrone, l’effetto è più accentuato nell’idrogeno muonico. Questo sistema è dunque più sensibile al raggio del protone e permette di determinare il suo valore con maggiore precisione. La spettroscopia laser dell’idrogeno muonico messa a punto al Psi si va ad aggiungere così agli altri due metodi sperimentali utilizzati per determinare il raggio del protone (vd. fig. c). L’approccio storico consiste nell’utilizzare processi di diffusione di elettroni su un bersaglio di idrogeno. Fu la misura precisa della distribuzione angolare degli elettroni a rivelare che il protone non è un oggetto puntiforme, bensì un sistema composito. Per questa scoperta Robert Hofstadter ebbe il premio Nobel nel 1961. L’altro metodo per determinare il raggio del protone consiste appunto nella spettroscopia laser di alta precisione dell’atomo di idrogeno.

     
    c.
    I tre metodi per determinare il raggio del protone: la diffusione di elettroni su protoni (nuclei di idrogeno), lo studio della transizione tra i livelli 1S-2S negli atomi di idrogeno ordinari e lo studio della transizione 2S-2P negli atomi muonici.
     
    d.
    Il laser del Paul Scherrer Institut impiegato per misurare il raggio del protone con la spettroscopia muonica.
     

    Poiché l’influenza della dimensione del protone sui livelli energetici dell’atomo d’idrogeno elettronico è minima, un’alta precisione sperimentale è necessaria, tale da stimolare lo sviluppo di tecnologie laser innovative culminate col premio Nobel a Theodor Hänsch nel 2005. Il valore del raggio del protone ottenuto dalla spettroscopia muonica, pari a 0,84087 ± 0,00039 fermi (un “fermi”, in onore di Enrico Fermi, è un milionesimo di miliardesimo di metro, chiamato anche “femtometro”), è un ordine di grandezza più preciso rispetto a quello determinato con le altre due tecniche, grazie alla maggiore sensibilità dell’atomo muonico agli effetti nucleari. Tuttavia esso è in significativo disaccordo (per ben 6 sigma, vd. Convivere con l'incertezza, ndr) con i valori ottenuti dagli altri due metodi (il valore ottenuto dalla diffusione di elettroni su idrogeno, per esempio, è pari a 0,879 ± 0,008 femtometri), il che ha originato quello che dal mondo scientifico è stato denominato il proton radius puzzle. Nuovi calcoli dei livelli atomici, ipotesi di fisica al di là del modello standard e revisioni della complessa struttura del protone sono stati proposti al fine di spiegare questa discrepanza, che però rimane tuttora irrisolta. Dal punto di vista sperimentale ambiziosi progetti sono in fase di realizzazione, fra cui la misura della struttura “iperfine” dell’idrogeno muonico. Tre collaborazioni sono impegnate in questo sforzo, una guidata da un gruppo di ricercatori dell’Infn al Rutherford Laboratory (UK), una presso il Psi e un’altra nel laboratorio Riken in Giappone.

     

    Biografia
    Aldo Antognini è ricercatore del Paul Scherrer Institut (Psi) e insegna al Politecnico di Zurigo (Ethz). Sin dal dottorato si occupa della spettroscopia laser di atomi muonici, dello sviluppo di laser ad alta energia e di nuovi fasci di muoni a bassa energia. Dal 2017 è titolare di un Erc Consolidator Grant.

    Elisa Rapisarda è fisico nucleare sperimentale al Paul Scherrer Institut (Psi). Ha conseguito il PhD nel 2006 e ha poi lavorato presso l’Università di Catania, la Kuleuven in Belgio e presso l’esperimento Isolde del Cern. La sua principale attività di ricerca riguarda la struttura nucleare di nuclei radioattivi.


    Link
    https://www.psi.ch/


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.7
     

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  • Attraverso la roccia

    Attraverso la roccia
    La tecnologia della radiografia muonica

    di Luca Lista

    a.
    La prima applicazione della muografia fu realizzata verso la fine degli anni ’60 nella piramide di Chephren, nella piana di Giza (nei pressi de Il Cairo), per capire se al suo interno esistessero altre camere ancora da scoprire.
    Una delle domande tipiche che si sente rivolgere chi fa ricerca di base è: “Sì, ma a che cosa serve tutto ciò?”. Non sempre è facile rispondere, perché le applicazioni pratiche possono arrivare anche molti anni dopo una scoperta scientifica, ma il caso del muone è particolare. Avendo proprietà identiche a quelle dei più noti elettroni, a eccezione della massa che è circa 200 volte più grande, quando attraversano la materia i muoni perdono una piccola quantità di energia (per unità di spessore di materia attraversata) e quindi riescono ad attraversare grandi spessori, prima di fermarsi una volta esaurita tutta la loro energia. Tutti noi siamo, pertanto, attraversati costantemente da una pioggia di muoni originati dagli urti di particelle di provenienza cosmica con l’atmosfera. Tra tutte le particelle prodotte in queste interazioni, ci raggiungono solo le particelle più penetranti, tra cui i neutrini e i muoni, che possono avere energie anche superiori a quelle prodotte al Lhc di Ginevra. Mentre i raggi X non riescono ad attraversare più di pochi metri di roccia, i muoni cosmici ne possono attraversare anche alcuni chilometri. La capacità di attraversare grandi spessori di materia permette dunque di utilizzare i muoni, proprio come i raggi X, per fare vere e proprie radiografie di strutture di grandi dimensioni. Una lastra di una normale radiografia viene impressionata (quindi scurita) maggiormente, quanto più riceve radiazione X. Un colore nero sulla lastra corrisponde alle zone in cui non c’è nulla lungo il percorso del raggio, a parte l’aria. Le zone che corrispondono alle ossa appaiono invece in bianco e ai tessuti molli corrispondono sfumature di grigio. Con lo stesso principio, un rivelatore di muoni può essere posto “dietro” una struttura da radiografare rispetto ai muoni cosmici di cui il rivelatore misura con precisione la direzione da cui provengono. Il numero di muoni che arriva ogni secondo da ciascuna direzione al livello del mare è stato misurato con grande precisione, ed è in accordo con i modelli che descrivono l’interazione della radiazione cosmica con l’atmosfera. Un “deficit” di muoni in corrispondenza di una certa direzione indica che una parte dei muoni si è fermata nell’attraversare la materia. Contando quanti muoni provengono da ciascuna direzione e confrontando questi conteggi con quanto ci si aspetta nel caso ci fosse solo l’aria tra il rivelatore e l’alta atmosfera, si può avere una misura precisa della quantità di materia attraversata lungo la traiettoria dei muoni.
     
    b.
    Principio di funzionamento della radiografia muonica di un vulcano. Nel grafico in basso a destra: una muografia del vulcano Satsuma-Iwojima, in Giappone.
     

    Tutto questo permette di produrre una “muografia”, del tutto simile a una radiografia. La muografia fu applicata per la prima volta alla fine degli anni ’60 per risolvere un importante enigma archeologico. A differenza della piramide di Cheope, nella quale erano state scoperte tre camere disposte ad altezza diversa, e con alcuni passaggi, la piramide di Chephren (situata assieme a quella di Cheope nella piana di Giza, nei pressi de Il Cairo, vd. fig. a) sembrava più semplice, con una camera sepolcrale al centro del basamento della piramide e una sotterranea, senza passaggi secondari. Gli archeologi però si chiedevano se in realtà esistessero altre camere ancora da scoprire. Il premio Nobel Luis Alvarez propose allora di installare rivelatori di muoni nella camera centrale per effettuare una muografia della piramide. La misura fu fatta, sotto la sorveglianza degli archeologi, nonostante un’interruzione dovuta alla guerra arabo-israeliana e i limiti tecnologici di allora. Dopo alcuni mesi di presa dati, necessari a registrare un numero sufficiente di muoni, l’esperimento dimostrò che non vi era alcuna cavità, evitando un’indagine tradizionale con interventi invasivi e irreversibili. Le applicazioni più recenti della radiografia muonica interessano in particolar modo i vulcani. Installando un rivelatore alla base, è possibile contare i muoni che attraversano l’intero cono vulcanico per avere informazioni sulla struttura interna, in particolare sul condotto vulcanico, che ha una densità diversa rispetto alla roccia che lo circonda e che può risultare quindi visibile nella muografia. Recenti misure sono state fatte in particolare sul vulcano Asama prima e dopo l’eruzione del 2009, mostrando significative differenze. Alcune stazioni permettono di effettuare continuamente muografie, misurando variazioni in tempo reale o quasi, allo scopo, insieme a metodi più tradizionali, di identificare eventuali segnali precursori di eruzioni. Con questo metodo si può esplorare solo la parte esterna del cono. I raggi cosmici, infatti, provengono dall’atmosfera e sono più abbondanti nella direzione verticale. Studiare strutture sotterranee è possibile quando un rivelatore può essere collocato ancora più in profondità rispetto alle strutture da studiare, come è stato fatto da gruppi dell’Infn nelle aree archeologiche di Aquilea e di Fiumicino. Una situazione ideale è quella presente nel sottosuolo napoletano, dove numerose cavità sono state scavate nella roccia tufacea sin dall’antichità. Nel centro storico di Napoli sono state recentemente studiate le cavità circostanti il tunnel borbonico, nel quale un gruppo dell’Ingv (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) e dell’Infn, che lavora al progetto premiale Muraves, ha istallato rivelatori simili a quelli utilizzati per fare misure sullo Stromboli e sul Vesuvio. Con i muoni cosmici è anche possibile analizzare strutture di dimensioni più piccole, permettendo l’identificazione di oggetti molto densi, come potrebbero essere materiali radioattivi illegalmente trasportati in un container. Un’altra proprietà dell’interazione dei muoni con la materia ci può aiutare per questo: attraversando la materia, infatti, i muoni, oltre a perdere energia, sono anche deflessi di un angolo che tende a essere più grande, quanto maggiore è la densità della materia attraversata. È possibile, quindi, misurare la deflessione del muone misurandone la direzione prima e dopo che abbia attraversato l’oggetto, utilizzando due rivelatori messi uno sopra e uno sotto. Dalle misure fatte con molti muoni, si realizza una tomografia tridimensionale che può evidenziare gli oggetti più densi all’interno del container. Un prototipo di un apparecchio del genere è stato realizzato presso i laboratori Infn di Legnaro e ha ottenuto promettenti risultati. Per miliardi di anni i muoni sono arrivati sulla Terra senza che l’umanità se ne accorgesse o ne fosse a conoscenza. Scoperti per caso un’ottantina di anni fa, sono diventati presto uno strumento di indagine utile e inatteso, dimostrando ancora una volta che il mero desiderio di conoscenza - la ricerca di base - può stimolare il progresso tecnologico per tutta l’umanità.

     
    c.
    Il muografo posizionato all’interno del tunnel borbonico a 35 metri di profondità all’interno del monte Echia, nel centro storico di Napoli.
     

    Biografia
    Luca Lista è ricercatore presso la sezione Infn di Napoli e partecipa all’esperimento Cms al Cern. Si occupa principalmente di analisi dei dati e di sviluppo di metodi statistici per la fisica delle particelle elementari. Negli ultimi anni è stato referente per la sezione di Napoli per le attività di divulgazione scientifica.


    Link
    http://www.scienceinschool.org/it/2013/issue27/muons
    http://cds.cern.ch/journal/CERNBulletin/2010/51/News%20Articles/1312698


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.5
     

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  • Editoriale

    Editoriale

    Caro lettore,

    Il fascino di una particella che viene scoperta nel 1936 come “mesone”, ma che poi, molti anni dopo, si rivela tutt’altra cosa, persiste tutt’oggi. Era stata identificata come la particella funzionale a trasformare neutroni in protoni nelle teorie dell’epoca ed era stata predetta da Yukawa, quindi niente di imprevisto, anzi... Senonché la natura è capace di sorprese straordinarie e, grazie al famoso esperimento fatto da Conversi, Pancini e Piccioni negli anni ’40 sotto le bombe che cadevano su Roma, si vide che questo oggetto non era un mesone (anche se per molto tempo si continuò a chiamarlo “mesone-mu”) e non aveva affatto interazioni forti come il protone e il neutrone, anzi piuttosto deboli! Quindi non più mesone-mu ma “muone”. Era un elettrone pesante e, poiché non era predetto da nessuna teoria e non sembrava servire a nulla nell’interpretazione di allora della natura, il fisico Isaac Raabi pronunciò la famosa frase “Who ordered that?” (“E questo chi lo ha ordinato?”). Invece, in realtà, era il primo segnale dell’esistenza delle tre famiglie dei leptoni (e dei quark), che poi furono incasellate nel modello standard. Per quanto riguarda la questione posta da Raabi, la risposta non la sappiamo ancora, ma abbiamo imparato a sfruttare le sue straordinarie proprietà, sviluppando tecniche sperimentali che ci hanno permesso di osservare il bosone di Higgs e i neutrini cosmici. Ci siamo persino ingegnati per capire come la particella “inutile” potesse essere usata anche al di là del mondo della fisica delle alte energie. Il muone non ha interazioni forti, come già detto, e poiché è 210 volte più pesante dell’elettrone irraggia molto poco e quindi procede diritto, sensibile solo alla quantità di materia che incontra lungo il suo cammino. I muoni che ci cadono addosso dal cielo non sono certo pochi (uno al minuto su ogni centimetro quadrato), quindi li possiamo usare per fare qualcosa di simile alla radiografia, lo studio dell’interno di qualcosa che non possiamo vedere direttamente: la tomografia muonica. Qualche esempio? Nell’interno della Piramide di Cheope alla ricerca di camere nascoste o per l’ispezione di camion, che potrebbero portare materiali molto densi e sospetti, o del reattore danneggiato di Fukushima e, ancora più interessante per noi, per studiare la presenza e distribuzione del magma in vulcani come il Vesuvio e l’Etna. Uno studio che l’Infn conduce in collaborazione con l’Ingv. Non sappiamo chi ha ordinato il muone, ma è certo che lo sappiamo sfruttare molto bene!

     

    Buona lettura.

    Fernando Ferroni
    presidente Infn

     

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  • Luci e ombre

    Luci e ombre
    Come si rivelano i muoni

    di Tommaso Chiarusi

    a.
    I muoni si possono rivelare con un semplice apparato di misura, come quello mostrato in figura, costituito da una coppia di scintillatori letti da fotomoltiplicatori. Imponendo una soglia sull’ampiezza del segnale e un opportuno intervallo di coincidenza temporale, nello schermo dell’oscilloscopio appaiono i segnali elettrici prodotti quando i due rivelatori sono attraversati dallo stesso muone cosmico.
    La prima esperienza con i muoni nel curriculum di un fisico avviene generalmente nei laboratori didattici, con semplici strumentazioni di misura degli “sciami” atmosferici (o shower, cioè docce, come le chiamano i fisici). Questi sciami sono composti di particelle secondarie, generate a partire dal primo impatto dei raggi cosmici con gli alti strati dell’atmosfera (vd. Voci dell'Universo, ndr). Dopo il neutrino, il muone è la particella più “penetrante”, cioè che ha perdite di energia molto contenute nell’attraversare la materia: è presente al livello del mare con un flusso di poche centinaia di eventi al secondo per m2 e un normale edificio non ne rappresenta uno schermo efficace. Dotato di carica elettrica, esso interagisce principalmente con gli elettroni del mezzo in cui si muove. L’energia trasferita al suo passaggio viene poi riceduta dalla materia come radiazione. Così, non appena attiviamo un semplice sistema di rivelazione costituito da scintillatori e fotomoltiplicatori, il segnale dei muoni può essere facilmente osservato con un oscilloscopio (vd. fig. a). Un salto in avanti ci porta ai moderni e complessi apparati sperimentali usati negli acceleratori di particelle, come Lhc al Cern. La collocazione in siti sotterranei garantisce la schermatura dai fotoni e da particelle cariche degli sciami atmosferici, eccezion fatta proprio per i muoni: a una profondità tra 50 e 100 m, il loro flusso si riduce di almeno due ordini di grandezza, con un’incidenza inferiore a poche decine di Hz per m2. Tuttavia, le apparecchiature di misura coprono aree che si estendono per centinaia di m2, esponendosi a un significativo numero di muoni al secondo. Questi potrebbero confondersi con i muoni originati nelle collisioni negli acceleratori, rischiando di contaminare misure di estremo interesse come, ad esempio, quelle dell’importante segnale in quattro muoni legato alla produzione del bosone di Higgs (vd. L'assedio all'Higgs, ndr). Il “rumore” atmosferico, come si chiama in gergo questo “fondo” sperimentale, è però facilmente eliminabile dai dati acquisiti, richiedendo che le tracce siano originate in una zona molto ristretta, compatibile con il vertice delle interazioni, e che i primi segnali misurati coincidano con i tempi delle collisioni. Per contro, i muoni atmosferici, attraversando dall’alto al basso tutto l’apparato sperimentale, sono utilizzati per l’allineamento delle strutture di rivelazione, incluso l’apparato dedicato a tali particelle: lo “spettrometro per muoni”.
     
    b.
    Il rivelatore L3 al Lep. Lo spettrometro era suddiviso in ottanti, ciascuno composto da 3 strati di camere a deriva. In esse, decine di fili metallici paralleli all’asse del fascio fungevano da anodo, garantendo una risoluzione spaziale nel piano trasversale di circa 50 µm. Il grande solenoide, che conteneva tutto L3, con una corrente di 30 kA, creava un campo di induzione magnetica di circa 0,5 T in un volume superiore a 1000 m3.
     

    Esso è generalmente formato da strati di celle con un forte campo elettrico e riempite con gas ionizzabile. Il passaggio dei muoni è rivelato dalla migrazione degli elettroni liberati attratti sull’anodo della cella. Date le proprietà di penetrazione dei muoni, lo spettrometro è posizionato in ampi settori periferici rispetto al vertice delle interazioni, ed è generalmente permeato da un forte campo magnetico. Così, dalla misura della curvatura delle traiettorie dei muoni si può risalire alla loro energia, cui è legata in modo inversamente proporzionale. Migliore è la misura della curvatura, più piccolo è l’errore sull’energia. Uno dei primi esperimenti con gli acceleratori a sfruttare una parte dei propri apparati per la misura di muoni indotti da raggi cosmici è stato L3, attivo al collisore Large Electron-Positron (Lep) del Cern negli anni ’90 del secolo scorso. Il suo ampio spettrometro per muoni, in combinazione con uno strato di circa 200 m2 di scintillatori plastici posizionati appositamente sulla sua sommità, formavano l’esperimento L3+Cosmics, in presa dati dalla fine del 1998 fino a tutto il 2000. Il gruppo di scintillatori sulla sommità serviva a discriminare i muoni atmosferici da quelli prodotti nell’acceleratore, e faceva scattare il sistema di acquisizione dei dati di L3+Cosmics in modo completamente separato da quello standard di L3 per le collisioni del Lep. Il principale risultato di L3+Cosmics è consistito nella misura del flusso dei muoni atmosferici in un intervallo energetico da 10 a 2000 GeV (ben 10 volte oltre l’energia disponibile nelle collisioni del Lep), con una precisione complessiva migliore del 2%, cioè 10 volte maggiore della precisione con cui erano noti allora tali flussi da precedenti misure. Un’ulteriore importante misura è stata quella del rapporto del numero dei muoni positivi rispetto a quello dei muoni negativi, risultato pari a circa 1,28, cioè con una prevalenza di muoni positivi, con una precisione dell’1% su quasi tutto l’intervallo energetico. Tale rapporto è legato alla prevalenza di protoni (con carica elettrica positiva) nei raggi cosmici primari, e dà informazioni sulle interazioni di questi con l’atmosfera. Nello spettrometro era possibile separare eventi multipli appartenenti allo stesso sciame, dato importante poiché la molteplicità di muoni è legata sia all’energia che al tipo del raggio cosmico primario. Per affinare tali indagini, occorre però aggiungere altre informazioni sullo sciame, come la densità radiale delle particelle rispetto alla direzione di propagazione e il numero di elettroni. Misure impossibili sotto terra. Per questo L3+Cosmics si era dotato di una piccola rete di 50 scintillatori posti sul tetto del capannone soprastante l’infrastruttura sotterranea. Risultati più precisi sono stati ottenuti successivamente da esperimenti dedicati, con griglie di rivelatori estese dai circa 0,5 km2 di Kascade/Kascade-Grande, attivo a Karlsruhe in Germania fino al 2013, ai 3000 km2 del Pierre Auger Observatory (Pao) nella Pampa, in Argentina, ancora in presa dati. I muoni sono stati anche protagonisti delle verifiche sperimentali delle oscillazioni dei neutrini, in primis nel 1998 con gli esperimenti Super-Kamiokande, sotto il Monte Ikeno in Giappone, e Macro, nelle sale sotterranee dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Tali esperimenti hanno chiarito il cosiddetto “neutrinopuzzle atmosferico”, cioè la discrepanza del rapporto tra le abbondanze dei neutrini elettronici e muonici prodotti negli sciami atmosferici. Poiché i neutrini “parlano” soltanto attraverso la forza debole, essi possono essere rivelati solo in via indiretta, principalmente tramite la misura dei componenti carichi della propria “famiglia” (ovvero la coppia [νl , l], dove ν indica il neutrino del tipo l e l = e, μ, τ, cioè l’elettrone, il muone o il tau), in cui si convertono nelle interazioni con la materia. Misurando quindi un deficit del flusso di muoni generati nelle interazioni dei neutrini muonici atmosferici, è stato provato che circa la metà dei neutrini muonici cambiassero sapore, in accordo con la teoria delle oscillazioni che prevede la transizione da neutrino muonico a neutrino del tau. L’evidenza diretta di tale oscillazione è stata poi ottenuta dall’esperimento Opera conclusosi nel 2010 (vd. Tutte le voci dell'universo, ndr).

     
    c.
    Una rappresentazione artistica del telescopio per neutrini Km3net. Un neutrino muonico, interagendo con la roccia sottostante il rivelatore, si converte in un muone “relativistico” (cioè un muone che viaggia alla velocità prossima a quella della luce nel vuoto) che ne prosegue la traiettoria. Il muone, muovendosi nell’acqua del mare, emette luce Cherenkov che viene captata dai moduli ottici (i fotomoltiplicatori) del telescopio.
     
    L’attuale frontiera dell’utilizzo di muoni come “firma” dell’interazione di neutrini riguarda i telescopi Cherenkov nelle profondità di laghi (Baikal-Gvd, in Russia) o mari (Antares e Km3net, nel Mar Mediterraneo) o sotto i ghiacci antartici (IceCube, in Antartide). Questi sfruttano l’effetto Cherenkov, ovvero fotoni emessi in fase dalle molecole di materia, stimolate da particelle cariche che vi si propagano con velocità superiore a quella della luce nel mezzo stesso. Poiché i fotoni Cherenkov indotti da un muone “relativistico” hanno tutti la stessa angolazione rispetto alla sua traiettoria (circa 42˚ in acqua), griglie di migliaia di fotomoltiplicatori, estese su un volume di circa 1 km3, permettono di ricostruirne la direzione con precisioni migliori di 1˚. I muoni con energie maggiori di 10 TeV mantengono circa la stessa direzione dei neutrini progenitori. È possibile, quindi, risalire alle porzioni di cielo corrispondenti per ricercarne le possibili sorgenti astrofisiche. Per verificare la precisione di puntamento, si ricorre alla misura della cosiddetta “ombra della Luna” nel flusso di muoni atmosferici. In pratica si cerca il deficit nel flusso di muoni in corrispondenza delle direzioni di arrivo dei raggi cosmici che impattano sul nostro satellite, di cui è nota la posizione, e che quindi non creano sciami. Insomma, dal più semplice esperimento didattico ai moderni e complessi rivelatori, la misura dei muoni è uno strumento fondamentale sia impiegato nelle calibrazioni degli apparati sperimentali che come oggetto di ricerche decisive nella moderna fisica astroparticellare.
     

    Biografia
    Tommaso Chiarusi è ricercatore Infn presso la sezione di Bologna. Attualmente è il coordinatore del sistema di acquisizione dei dati del rivelatore Km3net e studia l’ombra della Luna nei dati di Antares. In passato ha partecipato all’esperimento L3+Cosmics.


    Link
    http://www.astroparticelle.it/
    http://l3cos.web.cern.ch/
    http://www.km3net.org/


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.4
     

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  • Passaggi proibiti

    Passaggi proibiti
    Processi di violazione dei numeri leptonici

    di Alessandro Massimo Baldini

    a.
    Mentre era ancora in Canada, Bruno Pontecorvo (la foto è di pochi anni dopo) cercò di chiarire quale fosse il modo principale di decadimento del muone, assieme al suo collega Ted Hincks.
    La pressoché perfetta separazione tra le tre famiglie leptoniche note (e, μ, τ), predetta dal modello standard delle interazioni fondamentali, costituisce una sfida estremamente affascinante per i fisici sperimentali delle alte energie. La semplice osservazione di un qualsiasi processo elementare coinvolgente leptoni carichi che violasse questa regola (ovviamente senza gli opportuni neutrini a ristabilirla!) ci direbbe a chiare lettere che il modello standard non sarebbe più valido, ma che necessiterebbe di una radicale trasformazione. Storicamente è stata proprio la non osservazione di processi di questo tipo, detti anche Lfv (vd. Sapori di famiglia, ndr), cioè che violano la legge di conservazione del sapore leptonico, ad aver orientato la costruzione teorica del modello standard e il concepimento di tre famiglie separate. Furono per primi Bruno Pontecorvo, allora in Canada, e il suo collega Ted Hincks a cercare di chiarire quale fosse il modo principale di decadimento del muone. Con il loro esperimento del 1947, i due stabilirono un primo limite sulla possibilità che un muone decadesse in un elettrone e un fotone:

    meno di un muone su dieci. Oggi sappiamo che la probabilità è molto molto più piccola, ma questo limite diede il via alla ricerca sperimentale dei processi Lfv, che ancora oggi ci appassiona. Il muone è indubbiamente una particella privilegiata per queste ricerche, perché ha una massa piccola, cosa che ne rende energeticamente favorevole la realizzazione di fasci intensi e inoltre fa sì che abbia, di fatto, un solo modo di decadimento, che ne rende più agevole la distinzione rispetto ai possibili modi di decadimento Lfv. Ogni particella, infatti, può decadere, cioè trasformarsi, solo in particelle più leggere. Quindi, nel caso del muone, queste sono l’elettrone, il fotone e i neutrini. Il tau, 17 volte più pesante del muone, può decadere invece in molti modi diversi, rendendone più complessa l’identificazione sperimentale. Un’altra proprietà interessante del muone è che vive molto a lungo, circa 2,2 microsecondi! Può sembrare un tempo molto piccolo per i nostri standard, ma è sufficiente per permetterci di trasportare agevolmente i muoni dal punto di produzione al punto di utilizzo, facendoli comodamente arrestare là dove i nostri rivelatori sono pronti per studiarne i possibili modi Lfv di decadimento. Il tau vive 7,5 milioni di volte meno del muone rendendo anche per questo aspetto molto più difficile la costruzione di rivelatori che possano “vederlo”. Il decadimento di un muone in un elettrone e un fotone (sinteticamente scritto come μ→ eγ) non è l’unico decadimento Lfv del muone che viene ricercato. Altre possibilità sono il decadimento in due elettroni e un positrone (scritto come μ→3e, indicando con “e” sia i positroni che gli elettroni) e infine la conversione del muone in un elettrone (μ→e) in presenza di un nucleo atomico (vd. fig. b). I tre processi sono legati dal fatto che un fotone può sia dar luogo a una coppia elettrone-positrone (questo avviene in presenza di un campo elettromagnetico esterno), sia essere assorbito da un nucleo atomico. A questo punto, l’esistenza del processo μ→ eγ implicherebbe quella degli altri due processi, anche se la probabilità per i secondi sarebbe più piccola di un fattore di circa cento, come si può calcolare “semplicemente” nell’ambito dell’elettrodinamica quantistica (la Qed, vd. L'alfabeto della natura, ndr). Meglio restringere la ricerca al solo decadimento μ→ eγ allora? Niente affatto! Innanzitutto, sperimentalmente si misurano meglio i parametri (direzione, energia) degli elettroni, rispetto a quelli dei fotoni, perché gli elettroni, essendo elettricamente carichi, lasciano tracce rivelabili con maggior accuratezza di quella ottenibile con i fotoni: questi ultimi, essendo neutri, non lasciano direttamente tracce nei rivelatori ma lo fanno solo dopo aver interagito con materiali opportuni. La necessità di questo “doppio passo” rende le informazioni ottenute di qualità peggiore a quella ottenibile dagli elettroni. Risulta che la capacità di distinguere un buon segnale da un evento di fondo è molto migliore (almeno di un fattore 100) nel caso di μ→3e e μ→e che di μ→ eγ. In secondo luogo, teoricamente, possono esistere (anche se non sono presenti nelle teorie più in voga per il superamento del modello standard) processi Lfv senza la presenza del fotone, che potrebbero dar luogo a μ→3e e μ→e ma non a μ→ eγ. È quindi fondamentale che tutte queste ricerche vengano perseguite. Nei 70 anni dall’esperimento di Pontecorvo e Hincks la sensibilità nella ricerca dei processi Lfv è aumentata di dieci miliardi di volte, come si vede nella fig. c a p. 19, dove la sensibilità raggiunta per i tre processi descritti sopra è riportata in funzione dell’anno di misura. Questi miglioramenti sono stati possibili grazie al notevole progresso nella produzione di fasci di muoni super intensi e nel miglioramento delle tecniche di rivelazione delle particelle elementari. Uno dei laboratori dove si sono svolti molti degli esperimenti di ricerca dei processi Lfv è il Paul Scherrer Institut (Psi), vicino a Zurigo, che possiede una linea di fascio con un’intensità di 100 milioni di muoni al secondo, la più intensa al mondo in questo momento. Nel 2016 l’esperimento Meg al Psi ha concluso una prima fase di ricerca, stabilendo che meno di un muone ogni 2500 miliardi decade in un elettrone e un fotone! L’anno prossimo Meg ricomincerà la ricerca di μ→ eγ con rivelatori migliorati, cercando di incrementare la propria sensibilità di un ulteriore fattore 10.

     
    b.
    Da sinistra a destra, i decadimenti μ→ eγ, μ→3e e μ→e (in presenza di un nucleo atomico).
     
    c.
    Il grafico mostra il miglioramento negli anni dei limiti superiori posti sulle probabilità dei decadimenti Lfv del muone.
     

    Tra qualche anno, inoltre, il Psi ospiterà sulla stessa linea di fascio un altro esperimento, chiamato Mu3e, per la ricerca di μ→3e, che si propone di aumentare di un fattore 100 la sensibilità di questo decadimento rispetto al precedente limite. Due laboratori, il Jparc in Giappone e il Fermilab negli Usa, stanno costruendo delle linee di fascio di muoni ancora più intense, che raggiungeranno i 100 miliardi di muoni al secondo all’inizio degli anni 2020, per ricercare la conversione del muone in elettrone (μ→e) con una sensibilità di una conversione ogni 10 milioni di miliardi di muoni. Le ricerche dei processi Lfv vengono chiamate “la frontiera dell’alta intensità”, perché, come si è visto, per riuscire a vedere decadimenti rarissimi, ossia a bassissima probabilità, si usano fasci superintensi di muoni. È un po’ come se volessimo essere abbastanza sicuri di vincere il primo premio di una lotteria, che è ovviamente un evento di bassissima probabilità: dovremmo acquistare un gran numero di biglietti, abbastanza vicino al numero totale delle possibili combinazioni. Questa analogia ci permette anche di farci un’idea più precisa di quanto siano rari i processi Lfv che stiamo cercando: la misura del 2016 di Meg ci dice che la probabilità di un muone di decadere in un elettrone e un fotone è un milione e mezzo di volte più piccola di quella di fare 13 al totocalcio mettendo a caso 1, X o 2, ovviamente con una sola schedina - stiamo veramente cercando un ago in un pagliaio! Anche le ricerche che si svolgono al Cern con l’acceleratore Large Hadron Collider (Lhc) cercano di verificare i limiti di validità del modello standard. Lo fanno in un modo differente, spingendo le energie dei fasci di protoni che collidono a valori mai raggiunti in precedenza per cercare di produrre nuovi tipi di particelle mai osservati prima e che potrebbero essere la causa dei processi Lfv. Questi esperimenti vengono chiamati “la frontiera dell’alta energia”. Le due frontiere, quella dell’alta energia e quella dell’alta intensità, sono molto diverse per le tecniche utilizzate ma affrontano lo stesso tema: la ricerca di un avanzamento nella comprensione della microstruttura del nostro universo.

     

    Biografia
    Alessandro Massimo Baldini è ricercatore presso la sezione Infn di Pisa. Ha iniziato la propria attività scienti ca al Cern in esperimenti di camera a bolle per lo studio delle proprietà dei neutrini e la ricerca di oscillazioni di sapore. Ha collaborato per molti anni all’esperimento Macro presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso (Lngs) alla ricerca di un possibile segnale di neutrini da supernovae galattiche e successivamente ha lavorato presso la centrale nucleare di Chooz nelle Ardenne all’omonimo esperimento per la ricerca di oscillazioni di neutrino. È attualmente portavoce dell’esperimento Meg al Psi di Zurigo alla ricerca del decadimento del muone in un elettrone e un fotone.


    Link
    https://meg.web.psi.ch/
    https://mu2e.fnal.gov/
    http://comet.kek.jp


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.3
     

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  • Precisamente anomalo

    Precisamente anomalo
    La misura del momento magnetico del muone

    di Luca Trentadue

    a.
    Polykarp Kusch ottenne il premio Nobel per le sue ricerche sul momento magnetico dell’elettrone.
    Non accade di frequente che si passino più di novanta anni a misurare e calcolare con precisione, si potrebbe dire maniacale, un numero e che, dopo averlo misurato e calcolato fino alla undicesima cifra decimale, non ci si accontenti e si voglia proseguire ancora. Ma il caso che considereremo è un po’ speciale, e ha richiesto e continua a richiedere un trattamento altrettanto speciale. Il “momento magnetico del muone”, come anche quello analogo dell’elettrone, è un numero, un semplice numero, ma un numero molto importante tra quelli che rappresentano l’insieme delle quantità misurabili che si possono predire nel modello standard. L’“anomalia” dei suoi valori lo rende una grandezza particolarmente ricca di implicazioni per la fisica delle interazioni tra particelle elementari. La storia ha avuto inizio nei primi anni ’20 del secolo scorso, quando nel pieno sviluppo delle nuove ipotesi quantistiche si vollero stabilire rinnovate relazioni tra le grandezze fisiche. I leptoni, oltre a una carica elettrica, una massa e uno spin, hanno anche un momento di dipolo elettrico e un momento di dipolo magnetico. Secondo l’elettromagnetismo classico, una particella carica, come l’elettrone e il muone, che ruota su se stessa, dovrebbe avere un momento magnetico proporzionale al suo spin. La costante di proporzionalità si chiama “magnetone di Bohr”. Nel 1928, con la sua equazione relativistica dell’elettrone, Paul Dirac predisse che il momento di dipolo magnetico dell’elettrone avrebbe avuto un valore doppio rispetto alla predizione classica. Questa “anomalia” quantistica viene riassunta dal cosiddetto “fattore g”, che misura il momento di dipolo in unità di magnetone di Bohr, e vale 1 secondo la meccanica classica e 2 secondo la teoria di Dirac. Il valore 2 fu confermato da esperimenti fatti negli anni immediatamente successivi, anche se con una precisione limitata. Dovettero passare circa una ventina di anni, quando, alla fine degli anni ’40, il fisico tedesco naturalizzato statunitense Polykarp Kusch e l’americano Henry Foley, dopo una serie di delicate misure, osservarono che il valore del momento magnetico dell’elettrone differiva da 2 per la piccola ma molto importante quantità dello 0,12 %. Questa scoperta valse a Kusch il premio Nobel nel 1955. Quindi, il fattore g risultava essere doppiamente anomalo: non solo differiva dal valore classico (g=1), ma anche da quello predetto dalla teoria di Dirac (g=2). Per rendere più chiara questa differenza venne definita una nuova quantità: a=(g-2)/2, chiamata anche semplicemente “g-2”, che corrisponde alla differenza relativa dal valore g=2. Una quantità analoga si può definire naturalmente anche per il muone. Dal punto di vista della teoria, contemporaneamente, le cose andavano avanti. Nella seconda metà degli anni ’40, essenzialmente per i contributi di Sin-Itiro Tomonaga, Julian Schwinger, Richard Feynman e Freeman Dyson, furono poste le basi per una teoria quantistica relativistica delle interazioni elettromagnetiche: l’elettrodinamica quantistica (o Qed), per la quale i primi tre ricevettero il premio Nobel. Il primo calcolo della quantità a per l’elettrone in Qed fu ottenuto da Julian Schwinger nel 1948 (vd. il secondo diagramma in fig. 1 nell'approfondimento) e dette il valore a = α/2π=0,00116. Qui α rappresenta la “costante di struttura fine”, la costante di accoppiamento dell’elettrodinamica (vd. Cambia, todo cambia!, ndr).
     
    [as] approfondimento
    13.000 modi di essere anomalo



    1.
    I contributi a ordini crescenti in loop al momento magnetico di elettrone o muone sono rappresentati dai diagrammi di Feynman in figura. Il primo diagramma rappresenta il contributo a “livello albero” (zero loop) che dà il valore corrispondente all’equazione di Dirac g=2. Il secondo rappresenta il contributo a un loop, calcolato da Schwinger nel 1948 che dà un contributo ad a proporzionale ad α, precisamente pari a α/(2 π). Sono poi rappresentati solo alcuni dei molti diagrammi a due e tre loop che danno rispettivamente contributi proporzionali a α2 e α3. L’ultimo diagramma rappresenta il contributo di polarizzazione del vuoto dove la “bolla” piena rappresenta il contributo di tutti i possibili adroni. Le gambe esterne, uguali per tutti i diagrammi, rappresentano l’elettrone o il muone (linee continue) e il fotone (linea ondulata).
    Particelle cariche, come ad esempio gli elettroni, emettono fotoni quando vengono accelerate. Come conseguenza si ha che, oltre ai protagonisti iniziali, in un certo processo di interazione partecipino anche una serie di “comprimari”, essenzialmente fotoni ma anche elettroni, sia reali, cioè emessi dalle particelle cariche e lasciati liberi di propagarsi, che “virtuali”, cioè emessi da particelle cariche e poi riassorbiti in un tempo successivo. In breve il numero di particelle, fotoni o elettroni che siano, non è costante ma può variare. Di fatto il numero dei fotoni emessi, potendo avere ciascuno energia arbitrariamente piccola, può essere addirittura non definibile. Un modo di rappresentare le numerose e diverse possibilità di combinazione di comprimari in un dato processo fu proposto nel 1949 da Feynman e le figure che le rappresentano da allora sono chiamate appunto “diagrammi di Feynman”. Questi diagrammi non solo servono a rappresentare come può avvenire una certa reazione tra elettroni, ma ciascuno di questi diagrammi, come per esempio quelli in fig. 1, permette, secondo quanto stabilito da regole molto dettagliate e precise, di calcolare la probabilità che un certo processo avvenga. È possibile, secondo le regole della maggiore complessità e della gerarchia dei diagrammi definire con quale accuratezza il processo è descritto, cioè con quale ordine di approssimazione ne stiamo calcolando la probabilità. I diagrammi possono essere ordinati per linee uscenti e per aree chiuse (o “loop”) in gruppi di un determinato ordine che contribuiscono, con la stessa accuratezza, al calcolo della probabilità di un certo processo. Poiché ad ogni punto di contatto tra un fotone e un elettrone, cioè ad ogni vertice, viene attribuita una costante, che è l’unità di carica elettrica e che in Qed è un numero minore di uno, il contributo complessivo del diagramma, proporzionale al numero dei vertici, diminuisce all’aumentare degli stessi. Sommando contributi sempre più piccoli al processo principale si mette insieme una serie di probabilità con valori decrescenti, dando quindi una determinazione via via più accurata. Il prezzo da pagare è quello di avere, per ogni ordine e all’aumentare dell’ordine di linee uscenti e di aree chiuse, un numero crescente di diagrammi e quindi di contributi da calcolare. A due loop, i diagrammi possibili sono 7, a tre loop sono 72, a quattro loop 891 e a cinque loop oltre 12.000. Calcolare con grande accuratezza il momento magnetico significa quindi calcolare diagrammi con trama più ricca e con linee sempre più fitte di comprimari, che congiungono in tutti i modi possibili le particelle protagoniste.
     

    Se confrontato con il valore sperimentale ottenuto da Kusch e Foley, il calcolo di Schwinger dava conto quasi interamente dell’anomalia e quindi rappresentava uno straordinario successo della Qed. La ragione dell’anomalia era quindi nelle “correzioni radiative”, cioè nelle correzioni dovute ai processi virtuali che accompagnavano l’interazione principale, dovute alle particelle virtuali emesse e riassorbite dai protagonisti del processo (vd. approfondimento). Se infatti si ignorano le correzioni radiative, la quantità a si annulla e non sussiste dunque nessuna anomalia. La Qed veniva così confermata come l’approccio teorico che poteva descrivere con estrema accuratezza i processi quantistici, essere messa a confronto diretto con gli esperimenti e quindi descrivere le interazioni fondamentali fra particelle elementari. Da allora, il modello standard ha permesso di calcolare i momenti magnetici di elettrone e muone includendo in modo coerente e sistematico i valori che se ne ottengono in termini di tutte e tre le interazioni fondamentali. Oltre che per testare il modello standard a precisioni sempre più crescenti, i momenti magnetici sono anche delle formidabili “finestre” verso una possibile nuova fisica. Infatti, il loro valore numerico verrebbe modificato nel caso in cui ci fossero nuove interazioni o nuove particelle a energie più elevate di quelle raggiunte dagli acceleratori attuali. Questa sensibilità è proporzionale alla massa del leptone, ed è quindi maggiore per il momento di dipolo del muone, dato che questo ha una massa circa duecento volte quella dell’elettrone. La prima misura del momento magnetico del muone fu fatta alla Columbia University di New York nel 1960 e dava un valore del tutto compatibile con il valore ottenuto per l’elettrone ma non abbastanza preciso da metterne in evidenza la differenza. È nei primi anni ’60 che, al ciclotrone del Cern, fu fatta la prima misura di precisione da un gruppo di fisici tra cui l’italiano Antonino Zichichi. Anche questo risultato, ottenuto con una precisione dello 0,4%, non si discostava dal valore ottenuto per l’elettrone. Ancora al Cern, tra la seconda metà degli anni ’60 e i primi anni ’70, furono costruiti degli anelli di accumulazione di muoni e un gruppo di fisici, tra cui l’italiano Emilio Picasso, ottenne nuove misure del momento magnetico con precisioni crescenti e con valori in eccellente accordo con il valore teorico del tempo. La sfida per la teoria fu invece quella di ottenere risultati ancora più accurati. Dopo il pionieristico conto effettuato da Schwinger, i principali sviluppi furono quelli di Robert Karplus e Norman Kroll con il calcolo a due loop, il calcolo a tre loop iniziato da Toichiro Kinoshita, proseguito da Benny Lautrup ed Eduardo De Rafael e poi da Riccardo Barbieri, Juan Alberto Mignaco ed Ettore Remiddi. Questo fu completato da Stefano Laporta e Remiddi con un risultato analitico esatto nel 1996, quasi trent’anni dopo. Nei primi anni ’80 Kinoshita e collaboratori iniziarono il calcolo dei contributi a quattro loop, obiettivo non ancora raggiunto. Riguardo al calcolo delle correzioni radiative esiste tuttavia un ostacolo che il semplice conto non può superare ed è quello del calcolo del cosiddetto “contributo adronico” al momento magnetico del muone. A causa del comportamento della cromodinamica quantistica (Qcd, vd. A tinte forti, ndr) a basse energie, questo contributo non può essere calcolato con le tecniche diagrammatiche viste in precedenza (vd. approfondimento).

     
    b.
    Il primo esperimento “g-2” nel sincrociclotrone del Cern negli anni ’60, in cui erano all'opera Farley (a sinistra) e Zichichi (a destra).
     
    c.
    Un dettaglio dell’esperimento Kloe nei Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn, che ha misurato il contributo adronico al momento magnetico del muone.
     

    Fortunatamente però, grazie a un’osservazione fatta già nel 1960 dai fisici italiani Nicola Cabibbo e Raoul Gatto, esso può essere ricavato indirettamente dalla misura sperimentale del processo di annichilazione di una coppia leptone antileptone in adroni. A partire dagli anni ’80 una serie di misure sempre più accurate per determinare il contributo adronico sono state ottenute in vari esperimenti a Novosibirsk (in Siberia, con l’acceleratore Vepp-2m e Cmd), a Pechino (con Bes-II), allo Slac a Palo Alto in California (con Babar) e nei Laboratori dell’Infn di Frascati (nell’acceleratore Dafne con il rivelatore Kloe), con risultati confrontabili in accuratezza tra di loro. All’inizio degli anni 2000, misurando il momento magnetico anomalo del muone con l’esperimento E821 del Brookhaven National Laboratory di Upton, nello Stato di New York, si è trovato un valore che si discosta decisamente da quello teorico, con una probabilità che questo accada a causa di una fluttuazione statistica di meno dell’1%. Recentemente, per capire se questa discrepanza è dovuta al contributo adronico, è stato proposto un nuovo metodo per misurarlo attraverso processi di scattering tra muoni ed elettroni, anziché nel processo di annichilazione di due elettroni in adroni. Questo approccio innovativo potrebbe permettere di ridurre l’errore sul contributo adronico e migliorare quindi il confronto tra teoria e dati sperimentali o mettere in evidenza la presenza di nuova fisica. Al Fermilab di Chicago (Usa) è in fase di costruzione un nuovo esperimento (Muon g-2), a cui partecipa anche l’Infn, e un altro è previsto entrare in funzione presso J-Parc in Giappone. Questi esperimenti sono progettati per misurare l’anomalia del muone con una precisione di 140 parti per miliardo, quasi un fattore 4 di miglioramento rispetto a E821 (vd. Un mare di antimateria, ndr). È quindi di prima importanza migliorare l’accuratezza con cui si determinerà il contributo adronico. Nei prossimi anni la soluzione della questione aperta della discrepanza tra risultati sperimentali e calcolo teorico del momento magnetico anomalo del muone potrebbe portare a nuovi indizi sulla natura di una nuova fisica al di là del modello standard, in attesa di conferme dirette ottenute dai risultati a più elevate energie e maggiore luminosità degli esperimenti di Lhc.

     

    Biografia
    Luca Trentadue è docente di fisica teorica all’Università di Parma. Svolge attività di ricerca presso il Cern di Ginevra. Si occupa di divulgazione scientifica con seminari e lezioni. Ha realizzato e coordina la mostra interattiva permanente dell’Università di Parma “Microcosmo con vista” (http://www.s.unipr.it/microcosmo/home.html).


    Link
    http://www.treccani.it/enciclopedia/elettrodinamica-quantisticaverifiche-sperimentali_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-dellaTecnica%29/
    https://en.wikipedia.org/wiki/Anomalous_magnetic_dipole_moment
    http://www.g-2.bnl.gov/publications/ff/EPNd.htm


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.6
     

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  • Prima radiografia muonica del vulcano di Stromboli

    rivelatore muoni 2019Per la prima volta è stata realizzata una muografia del vulcano Stromboli, frutto della collaborazione di un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) in collaborazione con Istituti di ricerca giapponesi.

    La muografia o radiografia muonica è una tecnica che utilizza i muoni, particelle che vengono prodotte quando i raggi cosmici provenienti dallo spazio interagiscono con l’atmosfera terrestre, per ricostruire un’immagine della struttura interna di un oggetto.

    I risultati della prima radiografia muonica del vulcano Stromboli, pubblicati oggi, 30 aprile, sulla rivista internazionale Scientific Reports di Nature (link al paper), hanno rivelato la presenza di una zona a bassa densità nell’area sommitale del vulcano. Questa zona corrisponde a una struttura di collasso formatasi nell’area dei crateri durante l’eruzione effusiva del 2007 e successivamente riempita da materiale piroclastico incoerente prodotto dall’attività esplosiva stromboliana. Questa struttura, che ha condizionato lo stile eruttivo del vulcano dopo l’eruzione del 2007, presenta una densità di oltre il 30% inferiore rispetto al resto del substrato roccioso.

    “Il risultato ottenuto servirà a comprendere meglio i processi eruttivi stromboliani e la dinamica del versante della Sciara del Fuoco, che nel passato è stato più volte interessato da frane tsunamigeniche” - spiega Flora Giudicepietro, dell’Osservatorio Vesuviano di Napoli (INGV), che ha contribuito alla ricerca.

    La tecnica della radiografia muonica si basa su un principio simile a quello della radiografia che utilizza raggi X ma, rispetto a questa, presenta il vantaggio di poter essere impiegata per investigare oggetti molto più grandi, come i vulcani, appunto, perché i muoni hanno una capacità di penetrazione nella materia molto maggiore rispetto ai raggi X.

    “Il rivelatore di muoni che abbiamo progettato si basa sulle tecnologie sviluppate per l’esperimento OPERA, che ha studiato ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN le proprietà del fascio di neutrini proveniente dal CERN”, spiega Giovanni De Lellis della Sezione INFN di Napoli e dell’Università Federico II, a capo dell’esperimento OPERA e tra gli ideatori del progetto. “La prima sfida che abbiamo dovuto affrontare è stata la necessità di ideare un rivelatore compatto con alta risoluzione angolare, che non richiedesse alimentazione elettrica, che si potesse trasportare sulle pendici del vulcano e resistesse alle intemperie”.

    Il rivelatore utilizzato è costituito da 320 film di emulsioni nucleari, speciali lastre fotografiche che consentono di “fotografare” con grande precisione il passaggio delle particelle che le attraversano. La superficie del rivelatore utilizzata è di circa un metro quadrato. Il rivelatore è stato posizionato nel sito Le Roccette, a 640 metri di quota e ha raccolto per circa 5 mesi le tracce dei muoni che hanno attraversato il vulcano.

    “I muoni prodotti nell’interazione dei raggi cosmici con l’atmosfera penetrano nella roccia vulcanica e possono attraversarla da parte a parte. Tuttavia, a seconda della densità e dello spessore della roccia, una parte di questi viene assorbita” - spiega Valeri Tioukov, dell’INFN di Napoli, che ha coordinato il progetto. “Dal numero di muoni che arriva sul nostro rivelatore dalle diverse direzioni possiamo quindi capire la densità del materiale che hanno attraversato.”

    Radiografie periodiche della sommità del vulcano potranno essere usate per monitorare l’evoluzione della sua struttura interna.

  • Quark e sapori

    Quark e sapori
    Ricette per l'universo.
    di Paolo Gambino

    Nella simmetria risiede in buona parte la nostra capacità di descrivere la struttura fondamentale di ciò che conosciamo: su di essa poggia la teoria delle particelle elementari e delle interazioni fondamentali, il modello standard, e nelle simmetrie si realizza quella sintesi meravigliosa di leggi che la realtà fisica sembra manifestare. Ma se tutte le simmetrie fossero rispettate rigidamente – se la preziosa simmetria di gauge, in particolare, non fosse "rotta" – il mondo sarebbe tremendamente noioso e noi non saremmo qui a osservarlo. Il mondo che conosciamo, la sua varietà e la sua bellezza, il suo inafferrabile mistero, emergono proprio dal dialogo incessante tra simmetria e sua negazione. Uno dei misteri più profondi dell'universo subnucleare riguarda la classificazione delle particelle elementari, quei mattoni fondamentali della materia, i quark e i leptoni, che per le loro caratteristiche possono essere suddivisi in tre famiglie, o generazioni. E l'esistenza stessa di tre generazioni di quark e leptoni è ancora oggi un aspetto misterioso e affascinante della fisica delle particelle elementari. Leptoni e quark si differenziano tra loro innanzitutto per la loro carica elettrica, avendo i primi – elettroni, muoni, tau e neutrini – carica elettrica di valore intero +1, -1 o 0 (i neutrini), mentre i secondi, i quark, hanno tutti carica elettrica frazionaria, +2/3 o -1/3. Ciò che differenzia però quark e leptoni di famiglie diverse è la massa di queste particelle, che aumenta considerevolmente passando dalla prima alla terza generazione. L'etichetta che si usa per identificare i quark di tipo diverso è in inglese il flavor (sapore, in italiano). Così, quark e leptoni esistono in tre generazioni di sapore (in tre gusti, come fossero caramelle), che sarebbero identiche repliche se non fosse appunto per la massa, diversa per ogni sapore.

    a.
    Le particelle elementari, quark e leptoni, sono suddivise in base alla loro massa in tre famiglie o generazioni, in ordine di massa crescente (qui espressa in MeV/c2). Nel caso dei leptoni, i neutrini sono elettricamente neutri e hanno massa molto piccola, dell'ordine di una frazione di eV/c2. Un'analoga tabella contiene le antiparticelle, che si indicano con una linea sopra al loro simbolo.

    Le masse di queste particelle elementari sono molto diverse tra loro. Se la massa del neutrino è meno di un milionesimo di quella dell’elettrone, il quark top – un peso massimo – ha massa paragonabile a quella di un atomo di tungsteno e cento miliardi di volte maggiore di quella dei neutrini. Com’è possibile? Da dove hanno origine queste differenze gigantesche? La teoria che abbiamo non dà risposte. Le speculazioni naturalmente abbondano specialmente riguardo ai neutrini, la cui massa, piccolissima, si riteneva essere addirittura nulla fino al decennio scorso. Tuttavia, la ragione per cui le particelle elementari hanno masse così diverse tra loro rimane uno dei misteri più impenetrabili della fisica attuale.

    b.
    Tabella delle possibili transizioni tra quark di tipo diverso. Esse sono mediate dal bosone W e permettono di collegare generazioni diverse. Le transizioni più probabili sono sempre quelle all'interno della stessa generazione (frecce verticali). Le relazioni matematiche tra le forze associate a ognuna di esse costituiscono il meccanismo di Cabibbo, Kobayashi e Maskawa. Nella figura, le linee con uno spessore maggiore rappresentano le transizioni più probabili.

    Le forze attraverso cui queste particelle interagiscono sono completamente determinate dalla simmetria di gauge che ha originato l’interazione stessa e la massa non è altro che una conseguenza della rottura spontanea della simmetria. Se la simmetria di gauge fosse esatta, tutte le particelle dovrebbero avere massa nulla, come la particella mediatrice della forza elettromagnetica, il fotone o quanto di luce. A partire dalle tre generazioni, uno strano fenomeno permette di realizzare scenari inaspettati. Si tratta del mescolamento tra generazioni, introdotto per la prima volta nel 1963 da Nicola Cabibbo con due sole generazioni, ed esteso a tre generazioni dai giapponesi Kobayashi e Maskawa, nel 1973. Il mescolamento delle generazioni è strettamente legato all’origine delle masse: in assenza di masse le tre generazioni sono indistinguibili e il mescolamento non è osservabile.
    c.
    Il mescolamento dei quark avviene sempre attraverso lo scambio del bosone carico W. Nella figura è rappresentato il diagramma di Feynman del decadimento di un quark beauty in un quark strange e un fotone. I decadimenti di un quark in un altro quark di carica uguale, come il caso rappresentato, sono possibili solo facendo agire due volte il W sui quark. I fenomeni di questo tipo sono chiamati Fcnc (Flavor Changing Neutral Currents) e sono molto rari.
    Per capire di che cosa si tratti, consideriamo le cosiddette forze deboli, responsabili dei decadimenti radioattivi di alcuni nuclei atomici. Queste forze possono trasformare un quark di carica +2/3 (cioè un quark di tipo up, charm o top) in un quark di carica -1/3 (di tipo down, strange o beauty), e viceversa. La differenza di carica che si genera in questa trasformazione è trasferita ad altre particelle (leptoni o quark) dal bosone W mediatore dell’interazione debole, una sorta di fotone pesante con carica elettrica positiva o negativa in base alla particolare interazione in cui è coinvolto (indicato in quei casi W+ o W-). Nel caso dei decadimenti beta, per esempio, un quark down all’interno di un neutrone è trasformato in un quark up con emissione di un elettrone e di un antineutrino. Il neutrone decade così in un protone e una coppia di leptoni. In linea di principio il quark up potrebbe anche trasformarsi in un quark strange o beauty, ma questi ultimi sono troppo pesanti per essere prodotti in un decadimento beta: si violerebbe la conservazione dell’energia! In processi caratterizzati da energie più grandi, invece, le transizioni indicate in fig. b sono tutte possibili, ma non tutte con la stessa probabilità. La forza debole totale che agisce su un quark up è fissata dalla simmetria di gauge, ma come un fiume che si divide in tre canali essa si ripartisce tra le varie generazioni, e non tutte le transizioni hanno la stessa probabilità di realizzarsi. Di fatto, il bosone W interagisce quindi con una combinazione di sapori: se associamo un colore primario (rosso, blu, giallo) a ogni sapore di quark, possiamo immaginare che solo una combinazione di colori primari, per esempio arancione o verde, sia legata al bosone W. La simmetria di gauge impone quindi dei vincoli al modo in cui la forza debole si può ripartire tra le generazioni ed esistono semplici relazioni matematiche tra le forze che intervengono nelle varie transizioni mediate dal bosone W. Queste relazioni sono al centro del meccanismo del mescolamento, chiamato CKM dalle iniziali dei suoi scopritori (Cabibbo, Kobayashi e Maskawa). A determinarne il trionfo è stata la sua verifica sperimentale; l’impegno in questo senso è culminato nello studio dei decadimenti dei quark beauty negli esperimenti Babar (negli USA) e Belle (in Giappone) che hanno recentemente concluso la presa dati, con il contributo essenziale di molti ricercatori dell’Infn nel caso di Babar. Ma non si è trattato solamente di un impegno sperimentale: anche i fisici teorici hanno contribuito in maniera determinante. I quark infatti non possono essere osservati da soli, ma solo a gruppi di due o tre all’interno di una sorta di “bozzolo” (l’adrone), creato dalle interazioni forti per trattenerli. Per riuscire a interpretare correttamente nell’ambito del meccanismo CKM i risultati di esperimenti molto precisi, diventa allora indispensabile saper individuare il “bozzolo” dovuto all’interazione forte tra i quark e valutarne le caratteristiche. Si tratta di un problema molto difficile, una sfida formidabile, per la quale ci si avvale anche di simulazioni numeriche su supercomputer.

    d.
    L’esperimento Babar presso lo Stanford Linear Accelerator Center (Slac) in California. L’obiettivo principale di Babar è stato lo studio della violazione della simmetria CP, osservando il diverso comportamento dei mesoni B e delle loro antiparticelle, i mesoni B (Bbar), prodotti nelle collisioni di un fascio di elettroni e un fascio di positroni (le antiparticelle dell’elettrone) accelerati rispettivamente all’energia di 9,0 GeV e 3,1 GeV nell’acceleratore PEP-II di Slac. Le misure effettuate a Babar e Belle hanno permesso di confermare la validità del meccanismo CKM.

    La teoria del meccanismo CKM presenta due aspetti misteriosi. Il primo ha a che fare con la simmetria CP, la cui violazione mostra che il nostro mondo differisce da quello a esso speculare fatto di antiparticelle. L’aspetto sorprendente è che la violazione della simmetria CP è una conseguenza del mescolamento dei quark: esistono pertanto relazioni precise tra le asimmetrie di CP e il mescolamento dei sapori. Questo sorprende perché implica una connessione tra proprietà apparentemente molto diverse delle particelle. E d’altra parte non possiamo illuderci di avere compreso la violazione di CP, dal momento che la violazione di CP osservata nel settore dei quark non è sufficiente a spiegare l’asimmetria tra materia e antimateria nell’universo. Il secondo aspetto misterioso è che il fenomeno del mescolamento dei quark è fortemente gerarchico: le transizioni favorite sono sempre quelle tra quark della stessa generazione. Questa gerarchia sembra suggerire un ordine nascosto, forse il residuo di una simmetria originaria, che il meccanismo CKM si limita a registrare.
    Un altro aspetto caratteristico del meccanismo CKM è che il mescolamento dei quark non può avvenire attraverso lo scambio di particelle elettricamente neutre, come il fotone o il bosone Z0, il terzo mediatore, privo di carica, delle interazioni deboli. Il mescolamento avviene sempre attraverso lo scambio del bosone carico W. Il decadimento di un quark in un altro quark con la stessa carica può allora avvenire solo facendo agire due volte il W sui quark, il che diminuisce drasticamente l’intensità della forza debole e rende il decadimento molto meno frequente. I rari fenomeni di questo tipo, chiamati Fcnc (Flavor
    Changing Neutral Currents
    ), sono importantissimi e permettono verifiche di precisione del modello standard.
    Quanto detto finora riguarda i quark. Per i leptoni vale qualcosa di analogo, ma in questo caso i misteri si infittiscono. Intanto, non conosciamo ancora l’esatta natura degli sfuggenti neutrini.
    Nel settore dei leptoni non sono mai state osservate sperimentalmente transizioni fra leptoni carichi di sapore diverso: si tratta delle Fcnc del settore leptonico che nel modello standard sono praticamente impossibili. Nuovi risultati in questo senso sono attesi da Meg (Muone in Elettrone e Gamma), un esperimento coordinato dall’Infn e condotto in Svizzera, al Paul Scherrer Institut di Zurigo.
    Abbiamo oggi alcune indicazioni che il grandioso edificio del modello standard nasconde probabilmente qualcosa di ancora più mirabile, una nuova fisica che agisce a distanze ancora più piccole di quelle che abbiamo esplorato finora, e che forse potrà spiegare alcuni dei misteri sopra accennati. Ma è difficilissimo osservare gli effetti di quello che succede a distanze più piccole di quelle accessibili con le collisioni prodotte nei grandi acceleratori di particelle come Lhc, al Cern di Ginevra: i segnali sono inevitabilmente molto deboli, e per poterli rivelare è necessario limitare la raccolta di eventi “non interessanti”, ovvero abbassare il rumore di fondo, per usare il dialetto dei fisici. I decadimenti rari mediati da Fcnc sono importanti proprio perché permettono di abbassare il rumore di fondo dovuto alle forze del modello standard, e possono quindi diventare lo spiraglio da cui osservare la nuova fisica. Nuove particelle finora sconosciute potrebbero infatti affiancarsi al bosone W in processi come quello di fig. c e far sentire la loro debole voce, rendendo un poco più frequente un decadimento molto raro. Forse si tratterà di particelle supersimmetriche, che come suggerisce il nome sono i fossili di una nuova e profondissima simmetria. Forse, potendo studiare le relazioni di CKM in maggiore dettaglio, scopriremo che non sono poi così ben soddisfatte in natura, e che la nuova fisica le modifica in modo sistematico. È quindi evidente che gli studi di fisica del sapore sono complementari alla ricerca di nuove particelle al grande acceleratore Lhc e permetteranno di comprendere meglio le scoperte che tutti ci auguriamo. E, chissà, di azzardare forse qualche risposta ai misteri del sapore.
    [as] approfondimento
    Meg e il sapore dei leptoni


    1.
    Il calorimetro elettromagnetico a xenon liquido dell'esperimento Meg, equipaggiato con 846 fotomoltiplicatori.



    L’esperimento Meg (Muone in Elettrone e Gamma) ha come principale obiettivo la ricerca della violazione del sapore leptonico nel rarissimo decadimento del muone in elettrone e fotone (raggio gamma).
    Meg sfrutta un fascio di circa 100 milioni di muoni per secondo, ottenuto facendo incidere su un bersaglio di grafite il fascio di protoni dell’acceleratore del Paul Scherrer Institut a Zurigo, in Svizzera. I muoni hanno vita breve, di circa due milionesimi di secondo, e decadono nella maggior parte dei casi in un elettrone e due neutrini. Per rivelare gli eventuali rarissimi decadimenti in elettrone e fotone, Meg è dotato di rivelatori in grado di misurare contemporaneamente la direzione, l’energia e il tempo di arrivo di queste particelle. Il calorimetro elettromagnetico a xenon liquido, in particolare, equipaggiato con 846 fotomoltiplicatori, permette di rivelare la luce di scintillazione prodotta dai fotoni quando attraversano il mezzo sensibile. Compatibili con lo stesso decadimento, un elettrone e un fotone rivelati in coincidenza temporale sarebbero la prima prova sperimentale di un processo che viola il sapore leptonico. La loro rivelazione dimostrerebbe in modo inconfutabile la necessità di superare il modello standard.
     

    Biografia
    Paolo Gambino è professore di fisica teorica all'Università di Torino dal 2006, dopo aver lavorato in Germania, al Cern e all'Infn. Si occupa di ricerche sulla fisica del sapore.

     

    Link
    http://www-public.slac.stanford.edu/babar
    http://meg.pi.infn.it

     

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  • Radiografie muoniche nella Galleria Borbonica

    Stress 2016Eseguire radiografie muoniche da applicare alle prospezioni geofisiche: con questo obiettivo nella Galleria Borbonica di Napoli è stato installato un rivelatore di particelle, che l’8 marzo inaugura la sua attività. Il progetto nasce dalla collaborazione del distretto ad alta tecnologia Stress con la Sezione Infn di Napoli, e vede il coinvolgimento della società Tecno-in spa e il supporto dell’Associazione Borbonica Sotterranea. L’obiettivo della ricerca è ottenere mappature del sottosuolo attraverso una metodologia che a Napoli è la prima volta che viene sperimentata in ambito civile e ambientale.

    Come nel caso della tecnologia che consente di realizzare le comuni radiografie a raggi X, la radiografia muonica permette di ricostruire le tracce lasciate dai muoni, particelle elementari che hanno carica elettrica pari a quella dell’elettrone e massa 200 volte maggiore, e che hanno la caratteristica di riuscire ad attraversare grandi spessori di parete, penetrando piuttosto in profondità. “In particolare, la finalità del progetto consiste nel verificare la capacità del rivelatore di evidenziare alcune cavità che sappiamo essere presenti al di sopra di esso: attualmente, infatti, si trova collocato in prossimità di una cisterna”, spiega Giulio Saracino, ricercatore Infn e professore all’Università Federico II di Napoli, che collabora al progetto. “In una seconda fase, invece, il rivelatore verrà dislocato in maniera da poter individuare eventuali cavità non ancora note o delle quali non si conosce così esattamente la posizione”, conclude Saracino. [Antonella Varaschin]

  • Sapori di famiglia

    Sapori di famiglia
    La conservazione dei numeri leptonici

    di Lorenzo Calibbi

    a.
    Il sapore, in fisica, è una caratteristica tipica (un “numero quantico”) di diversi leptoni e quark, altrimenti indistinguibili in base ad altre proprietà.
    Compito della ricerca fondamentale è esplorare mondi ignoti, aprire porte verso una comprensione più profonda della natura. La fisica del muone ci fornisce diverse opportunità in questo senso, alcune delle quali hanno a che fare con il suo “sapore”. Nel modello standard, conosciamo tre famiglie di leptoni, ognuna delle quali è costituita da una particella carica (rispettivamente l’elettrone, il muone e il leptone tau) e dal neutrino corrispondente. Analogamente, anche i quark si presentano in tre diverse generazioni o sapori (in inglese flavours), come sono stati fantasiosamente battezzati dai fisici. Perché vi siano tre famiglie e perché le masse di particelle di differenti sapori siano tanto diverse è uno dei misteri che il nostro modello standard delle particelle, nonostante i grandi successi e le accuratissime predizioni di molti fenomeni, non arriva a spiegare. Molti ritengono che questo “mistero del sapore” possa essere spia di una teoria, non ancora formulata, delle particelle e delle loro interazioni, più fondamentale del modello standard. Come nel mondo della fisica classica, così in quello quantistico delle particelle, le leggi di conservazione rivestono grande importanza. Pensiamo ad esempio alla conservazione dell’energia. Vi sono alcune quantita ̀conservate, dette numeri quantici, che non hanno sempre equivalenti classici, dalle quali i fisici apprendono informazioni preziose per determinare le proprietà fondamentali delle particelle. Una di queste è il cosiddetto “numero leptonico”, vale a dire la somma del numero di leptoni (leptoni a carica negativa e neutrini) meno il numero di antileptoni (leptoni a carica positiva e antineutrini) in una data reazione. Finora non sono stati osservati processi (ovvero decadimenti di particelle o collisioni), in cui il numero leptonico iniziale sia diverso da quello finale, come del resto predetto dal modello standard. Ma c’è di più: il modello standard, nella sua formulazione originaria in cui i neutrini non hanno massa, predice anche che i numeri leptonici associati ad ogni singola famiglia siano conservati, cioè che in una reazione non cambi, ad esempio, il numero di muoni e neutrini muonici meno il numero di antimuoni (muoni positivi) e antineutrini muonici, e lo stesso nel caso degli elettroni e dei tau. Tale predizione non è stata finora contraddetta da quanto osservato nel caso di processi dei leptoni carichi e, anzi, spiega la presenza di un neutrino e di un antineutrino fra le particelle prodotte nel decadimento del muone. Il muone, infatti, decade con una probabilità prossima al 100% in un elettrone, un neutrino muonico e un antineutrino elettronico. Come mostrato nella fig. b, in questo processo non solo il numero leptonico totale, ma anche i numeri leptonici del muone e dell’elettrone sono singolarmente conservati: il sapore è preservato, nel caso di quello muonico viene semplicemente trasferito dal muone al suo neutrino. Diverso sarebbe il caso di un decadimento del muone in un elettrone e un fotone, un processo che i fisici cercano di osservare da più di settant’anni! Come vediamo sempre in fig. b, in tale decadimento il numero leptonico totale sarebbe conservato, ma non i numeri di famiglia: assisteremmo cioè a una trasformazione di sapore, da muonico a elettronico. Altrettanto accadrebbe nel caso di un muone che decadesse in un elettrone più una coppia elettrone-positrone. A prima vista, può sorprendere che tali processi con cambiamento di sapore, spesso chiamati processi Lfv (dall’inglese lepton flavour violation), non siano stati ancora osservati. In primo luogo perché fenomeni analoghi avvengono piuttosto di frequente nell’ambito dei quark, i cui sapori si mescolano e trasformano. Inoltre, abbiamo da più di quindici anni l’evidenza che i numeri di famiglia leptonici non sono conservati nella propagazione dei neutrini. Per illustrare quest’ultimo fenomeno, detto di “oscillazione dei neutrini”, dobbiamo aprire una breve parentesi. Secondo la meccanica quantistica uno stato fisico, come per esempio una particella, può essere una sovrapposizione, una “miscela”, di stati distinti. Così come il gatto del famoso esperimento concettuale di Schrödinger può trovarsi nell’imbarazzante situazione di sovrapposizione degli stati di vita e di morte (vd. La fisica di Star Trek, ndr), meno drammaticamente un neutrino di un dato sapore è in realtà una miscela di neutrini di masse diverse. Ciò fa sì che vi sia una certa probabilità che neutrini di sapore definito, ad esempio prodotti da decadimenti di muoni, si trasformino, propagandosi, in neutrini di diverso sapore e vengano osservati in processi che coinvolgono elettroni o tau. Le misure effettuate dagli esperimenti che hanno osservato le oscillazioni dei neutrini mostrano inoltre che i tre sapori si miscelano in larga misura, senza che nessuno di essi prevalga, un po’ come una torta venuta piuttosto male in cui i sapori dei diversi ingredienti (diciamo dolce, aspro e salato) siano tutti egualmente percepibili.
     
    b.
    Se ci fosse un solo numero leptonico L, comune a elettroni e muoni, posto convenzionalmente uguale a 1 per le particelle (leptoni negativi e neutrini) e -1 per le antiparticelle (leptoni positivi e antineutrini), questo numero sarebbe conservato nel decadimento a sinistra, che rappresenta il decadimento del muone in elettrone, neutrino e antineutrino, che è quello che si osserva sperimentalmente, ma anche in quello di destra, in elettrone e fotone, che non è mai stato osservato. Se introduciamo invece due numeri leptonici distinti per famiglie o sapori (ovvero Le per gli elettroni e i loro neutrini e Lμ; per i muoni e i loro neutrini), assegnando, per ciascun sapore, di nuovo +1 alle particelle e -1 alle antiparticelle, ma 0 alle particelle o antiparticelle dell’altro sapore, il decadimento di sinistra conserva entrambi questi numeri, mentre in quello di destra né Le né Lμ; sono conservati. Si noti che la somma dei singoli termini di Le e Lμ; fa L.
     

    Dunque, il sapore dei neutrini, cioè il numero leptonico di famiglia, è, come dicono i fisici, “violato”, e non di poco. Perché dunque tale processo di violazione non è ancora stato osservato nel caso dei leptoni carichi, in particolare dei muoni? Torniamo all’ipotetico decadimento del muone in elettrone e fotone. Come abbiamo detto, tale processo Lfv è proibito nel modello standard, ma ora sappiamo che i neutrini oscillano cambiando di sapore. È pertanto possibile immaginare il processo rappresentato nella fig. c, in cui, secondo un altro caratteristico fenomeno quantistico, il muone emette per un tempo infinitesimale un neutrino muonico e un bosone W. Se il neutrino oscilla in un neutrino elettronico, e il bosone emette un fotone e poi trasforma il neutrino in elettrone, vediamo realizzato il nostro cambiamento di sapore dei leptoni carichi! Purtroppo però, se calcoliamo la probabilità che questo processo Lfv avvenga, scopriamo che dipende dal rapporto fra le minuscole masse dei neutrini e quella del W elevato alla quarta potenza e che quindi possiamo attenderci un solo decadimento di questo tipo ogni 1054 decadimenti ordinari, un numero decisamente troppo piccolo per poter essere mai osservato in un esperimento! Perché allora continuiamo a cercare processi di questo tipo? Proprio perché è dalle cose che riteniamo “impossibili” che abbiamo l’opportunità di imparare di più. L’osservazione di una violazione del sapore leptonico dei leptoni carichi sarebbe infatti un segnale inequivocabile di nuova fisica al di là del modello standard e forse una porta verso la soluzione del sopra citato mistero del sapore. Inoltre, come abbiamo visto, l’estrema “soppressione” di tali processi Lfv (ovvero il fatto che la probabilità che avvengano è molto molto piccola) è una conseguenza della piccolezza delle masse dei neutrini, non del fatto che i numeri leptonici di famiglia siano quantità conservate, e quindi non è prevista nella maggior parte delle estensioni del modello standard che sono state proposte. Ad esempio, se le particelle che conosciamo avessero un partner supersimmetrico (vd. anche Il mondo con la esse davanti, ndr), potremmo immaginare di sostituire nel diagramma di fig. c i neutrini e il W con i corrispondenti partner supersimmetrici, il che genererebbe il nostro processo senza la soppressione dovuta alla leggerezza dei neutrini e quindi potenzialmente alla portata degli esperimenti attualmente in costruzione.

     
    c.
    Diagramma che mostra come sia teoricamente possibile che un muone decada in elettrone e fotone attraverso l’oscillazione (vale a dire il cambiamento di sapore) dei neutrini: il muone si trasforma in un bosone W e un neutrino muonico, entrambi virtuali; il neutrino muonico oscilla in un neutrino elettronico; nel frattempo il bosone emette un fotone ed è riassorbito dal neutrino elettronico, trasformandolo in un elettrone.
     

    Biografia
    Lorenzo Calibbi lavora all’Accademia Cinese delle Scienze di Pechino. Dopo il dottorato, conseguito all’Università di Padova, ha fatto ricerca alla Sissa di Trieste, a Monaco di Baviera e a Bruxelles. Si occupa di sica delle particelle al di là del modello standard.


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.2
     

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  • Un pezzo d'Italia nell'esperimento Mu2e del Fermilab

    Mu2eÈ un successo della fruttuosa collaborazione tra ricerca di base e ricerca industriale, la recente assegnazione ad Asg Superconducting di Genova della costruzione di uno dei tre magneti dell’esperimento internazionale Mu2e (Muon to electron). Un primo passo verso la realizzazione della tecnologia avanzata per l’esperimento è stato compiuto in questi giorni a Genova, dove si è chiuso oggi il kick off meeting che, con la partecipazione di rappresentanti di Infn, Asg e Fermilab di Chicago, ha dato l’avvio ai lavori di realizzazione del magnete. L’esperimento Mu2e, che ha sede al Fermilab, è dedicato allo studio sperimentale sulla conversione dei muoni in elettroni. Si inserisce nel programma internazionale di ricerca per lo studio dei processi rari che, violando la legge di conservazione del sapore leptonico, danno indicazione di una fisica non prevista dal modello standard delle particelle elementari, e quindi di una nuova frontiera nel quadro attuale delle nostre conoscenze.

    La collaborazione Mu2e è costituita da circa 200 membri, con partecipazioni da 33 istituti distribuiti su 5 paesi: Stati Uniti, Italia, Russia, Germania e Regno Unito. La componente Infn di Mu2e è costituita da 25 ricercatori, tecnologi e tecnici proveniente da i Laboratori Nazionali di Frascati e le sezioni di Lecce, Genova e Pisa, che partecipano alla costruzione del sistema calorimetrico e del sistema magnetico dell’esperimento. Il sistema magnetico superconduttore rappresenta il cuore dell’apparato sperimentale e ne determina in modo decisivo le prestazioni. Dei tre magneti che lo costituiscono, il solenoide di trasporto commissionato ad Asg è il magnete centrale ed è composto da 27 moduli. Ha il compito di selezionare le particelle cariche separandole per segno della carica ed è sufficientemente lungo da lasciar decadere tutte le particelle che sono da considerare segnali spuri e consentire così la produzione di un fascio di muoni negativi “pulito”.

    Il modulo prototipo del solenoide è stato sviluppato dal gruppo Infn di Genova anche grazie all’uso di tecnologie costruttive innovative. Successivamente realizzato da Asg Superconducting, nei tempi e costi previsti, il modulo è stato collaudato al Fermilab raggiungendo prestazioni addirittura superiori alle aspettative.

     

  • Una vita da mediano

    Una vita da mediano
    Storia della più elegante, eclettica e robusta tra le particelle

    di Filippo Ceradini

    A metà degli anni ’30 si conoscevano l’elettrone, il positrone, il protone, il neutrone ed era stata ipotizzata l’esistenza del neutrino. Era un’epoca di grande fermento culturale e di progresso tecnologico. Erano state formulate le prime teorie delle interazioni tra particelle: la teoria del decadimento β (vd. fig. d) da Enrico Fermi nel 1934, la teoria delle “forze nucleari” da Hideki Yukawa nel 1935, la teoria quantistica della radiazione elettromagnetica da vari studiosi, tra cui Paul Dirac, Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Viktor Weisskopf e Walter Heitler (quest’ultimo l’aveva esposta in un suo famoso trattato del 1936). I fisici sperimentali avevano sviluppato tecniche per rivelare le particelle ionizzanti con la camera di Wilson e il contatore di Geiger-Müller, e con questi strumenti si studiavano le particelle prodotte in interazioni dei raggi cosmici nell’atmosfera. Gli esperimenti erano condotti per lo più in alta montagna, al Pike’s Peak sulle Montagne Rocciose, al Pic du Midi sui Pirenei e al Plateau Rosa sulle Alpi. Nel 1932, studiando le tracce in una camera di Wilson, Carl Anderson e Seth Neddermeyer osservarono una particella che non si poteva identificare né con il protone né con l’elettrone. La nuova particella, a differenza degli elettroni, rilasciava tracce più nitide e definite e sembrava non perdere energia lungo il percorso. L’anno successivo, Jabez Street ed Edward Stevenson stimarono che questa particella avesse una massa intermedia tra quella dell’elettrone e quella del protone e, per questo, fu chiamata “mesotrone”, oppure semplicemente “mesone” (da mesos che in greco vuol dire “nel mezzo”). Come si sarebbe capito un decennio dopo, era stato scoperto quello che oggi chiamiamo “muone”, la più elegante, eclettica e penetrante tra le particelle. Misure più accurate permisero di definire le caratteristiche del mesotrone: una massa pari a circa 200 volte la massa dell’elettrone e una carica elettrica sia positiva che negativa. Inoltre, si verificò che i mesotroni positivi decadevano in positroni, con uno spettro di energia continuo, caratteristica tipica del decadimento β dei nuclei. Più problematica fu la misura della loro vita media.
     
    a.
    Fotografie di tracce osservate in una camera di Wilson, di diametro di circa 30 cm. Uno sciame di elettroni e positroni, a sinistra, una singola particella ionizzante, a destra.

     

    A quei tempi non si disponeva di strumenti di rivelazione con buona risoluzione temporale e per determinare la vita media dei mesotroni si confrontavano le misure del flusso di queste particelle nei laboratori in montagna ad alta quota con quelle a livello del mare. I primi risultati furono discordanti a causa del diverso comportamento dei mesotroni negativi e positivi (i primi possono essere catturati dai nuclei mentre i secondi decadono in volo). Il problema fu risolto da Bruno Rossi che fin dal 1930 aveva sviluppato nuovi circuiti elettronici che permettevano di mettere in coincidenza temporale i segnali prodotti dai vari rivelatori usati in un esperimento. Nel 1941, Franco Rasetti e, indipendentemente da lui, Bruno Rossi e Norris Nereson, utilizzando i nuovi circuiti accoppiati a contatori di Geiger-Müller, misurarono la vita media di queste particelle ottenendo un valore di 2,2 microsecondi. Questa misura fornì anche la prima verifica diretta della legge relativistica di dilatazione dei tempi: infatti, viaggiando alla velocità della luce i mesotroni percorrerebbero solo meno di settecento metri prima di decadere e non potrebbero giungere fino a noi dopo essere stati prodotti nell’alta atmosfera (vd. [as] radici: Dilatazione dei tempi alla prova., ndr). Il motivo per cui li osserviamo abbondantemente a livello del mare è che la loro vita media nel sistema del laboratorio (in cui viaggiano a velocità prossime a quella della luce) risulta notevolmente dilatata rispetto ai 2,2 microsecondi della vita media nel loro sistema di riposo. Fino ai primi anni ’40 si riteneva che il mesotrone fosse la particella mediatrice delle forze nucleari immaginata da Yukawa nel 1935. La teoria di Yukawa (vd. in Il grande passo dell'antimateria, ndr) prevedeva che i costituenti del nucleo atomico, protoni e neutroni, interagissero e fossero legati tramite lo scambio di particelle aventi una massa dell’ordine di qualche centinaio di masse elettroniche, una caratteristica condivisa dal mesotrone.

     
    b.
    Franco Rasetti, in una foto del 1941. Negli anni ’30 Rasetti faceva parte del famoso gruppo dei ragazzi di via Panisperna.
     
    c.
    Giuseppe Occhialini (a sinistra) e Cecil Powell (a destra).
     
    L’identificazione del mesotrone con la particella di Yukawa sembrava naturale, ma venne smentita dall’esperimento di tre giovanissimi ricercatori italiani, Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni, che durante la seconda guerra mondiale facevano ricerche sui raggi cosmici nell’allora nuovo Istituto di Fisica dell’Università di Roma “La Sapienza” e, dopo il bombardamento di San Lorenzo, trasferirono gli strumenti nel liceo Virgilio. Conversi, Pancini e Piccioni utilizzarono un metodo sperimentale innovativo che includeva i contatori di Geiger-Müller, circuiti di coincidenza e analizzatori magnetici (le lenti magnetiche sviluppate da Gilberto Bernardini): un moderno spettrometro. Le coincidenze dei contatori e le lenti magnetiche permettevano di selezionare i decadimenti dei mesotroni positivi e negativi. I mesotroni venivano fatti passare attraverso materiali detti “assorbitori” con un numero atomico molto diverso, come il carbonio o il ferro, al cui interno decadevano. L’analisi delle misure dei diversi fenomeni di cattura nucleare e decadimento dei mesotroni positivi e negativi mostrò che il mesotrone non era soggetto alla forza nucleare e non poteva quindi essere la particella di Yukawa (vd. anche [as] radici - Muoni sotto le bombe., ndr). La sua natura fu chiarita poco dopo, osservando le tracce di una particella “madre” di massa leggermente maggiore, che decade in un mesotrone e in un’altra particella neutra invisibile (che fu poi identificata come neutrino). L’osservazione fu fatta da Cecil Powell, César Lattes e Giuseppe Occhialini, utilizzando delle lastre di emulsione fotografica di grande sensibilità sviluppate in collaborazione con la ditta Ilford. La particella madre fu chiamata mesone-π, mentre alla particella “figlia” (il “vecchio” mesotrone), venne dato il nome di mesone-μ. Si capì allora che il mesone-π era proprio la particella di Yukawa. Il μ, che ben presto fu ribattezzato “muone”, era invece una particella del tutto nuova e inattesa da un punto di vista teorico. Oggi sappiamo che il μ è una particella elementare, appartenente alla categoria dei “leptoni” (dal greco leptos, leggero). Il muone ha perso quindi la definizione di “mesone”, nome che fu dato a una categoria di adroni (particelle soggette all’interazione forte, l’interazione fondamentale alla base della forze nucleari), costituiti da un quark e un antiquark. Il mesone-π (chiamato poi più comunemente “pione”), invece, è un vero e proprio “mesone”, di massa pari a 140 MeV (ovvero 274 volte la massa dell’elettrone).
     
     
    Subito dopo la scoperta di Lattes, Occhialini e Powell, gli italiani Bruno Pontecorvo e Giampietro Puppi, analizzando il decadimento β del neutrone, il decadimento del muone in elettrone e la cattura del muone da parte di un neutrone (vd. fig. d), giunsero alla conclusione che si trattava di processi dovuti tutti alla stessa interazione, l’interazione debole descritta dalla teoria di Fermi. Questa è la più peculiare tra le interazioni fondamentali, quella che permette il maggior numero di trasgressioni. La teoria originale di Fermi, estesa ai quark dalla teoria di Cabibbo-Kobayashi-Maskawa, prevede un unico parametro fondamentale, la “costante universale di Fermi”, che è determinata dalla vita media e dalla massa proprio del muone. La massa del muone è ottenuta con grande precisione dai livelli di energia dell’atomo muone-elettrone (μ+e-, detto “muonio”), e vale 106 MeV (207 volte la massa dell’elettrone). La vita media del muone è stata poi misurata con precisione crescente utilizzando fasci intensi di muoni, e il suo valore attuale è di 2,197 microsecondi: come risultato la costante universale di Fermi è nota attualmente con la precisione di una parte per milione, e questo grazie al solo muone. L’unico decadimento del muone che conosciamo è in elettrone, neutrino e antineutrino. Per lungo tempo si sono cercati altri modi di decadimento. Il primo tentativo risale al 1948, quando Ted Hincks e Bruno Pontecorvo cercarono senza successo il decadimento di un muone in elettrone e fotone. Nel 1953 Emil Konopinski e Hormoz Mahmoud introdussero il concetto di “numero leptonico”, come quantità conservata nell’interazione debole. L’idea era che l’elettrone, il muone negativo e il neutrino avessero un numero leptonico pari a +1, e che il positrone, il muone positivo e l’antineutrino avessero un numero leptonico pari a -1. Nel decadimento del muone, in effetti, il numero leptonico si conserva se si ipotizza che vengano emessi un neutrino e un antineutrino. Alla fine degli anni ’50, per opera di Kazuhiko Nishijima e Bruno Pontecorvo, emerse l’idea dell’esistenza di “famiglie” leptoniche e di due tipi di neutrino: il neutrino elettronico e il neutrino muonico. L’elettrone e il corrispondente neutrino elettronico, da una parte, il muone e il corrispondente neutrino muonico, dall’altra, costituiscono due distinte famiglie leptoniche, ognuna con il proprio numero leptonico conservato. Il decadimento in elettrone e fotone è invece proibito, perché viola la legge di conservazione del numero leptonico muonico ed elettronico.
     

    d.
    Il cosiddetto “triangolo di Puppi”, che illustra il fatto che tre processi diversi (decadimento β, decadimento del muone e cattura muonica) sono accomunati dalla stessa costante di accoppiamento, essendo dovuti alla stessa interazione universale, l’interazione debole.

     
    Ciò comporta che il neutrino e l’antineutrino prodotti nel decadimento del muone appartengano a famiglie diverse. Per verificare questa ipotesi Pontecorvo e, indipendentemente, Melvin Schwartz proposero di usare fasci di neutrini prodotti nel decadimento di pioni in muoni. Utilizzando il più potente acceleratore dell’epoca, l’Ags di Brookhaven, nel 1962 Leon Lederman, Jack Steinberger e Melvin Schwartz mostrarono che i neutrini prodotti con il fascio dell’Ags, fatti interagire con un bersaglio di alluminio, producevano a loro volta muoni ma non elettroni: erano dunque neutrini di tipo muonico. Veniva così confermata l’esistenza di due famiglie leptoniche, cui si sarebbe aggiunta in seguito la terza, quella del leptone τ, scoperto dal gruppo di Martin Perl nel 1975. Decadimenti del muone in violazione della legge di conservazione del numero leptonico sono stati lungamente cercati, fino a raggiungere oggi un limite superiore sui decadimenti proibiti di uno su un milione di milioni. Il muone ha sempre difeso strenuamente la sua identità e l’identità della sua famiglia distinta dalle altre (vd. Sapori di famiglia e Passaggi proibiti, ndr). Tra gli anni ’50 e gli anni ’70 il muone è stato il protagonista di molte misure che hanno prodotto importanti risultati. Nel 1953 Val Fitch e James Rainwater introdussero un nuovo metodo per misurare il raggio dei nuclei basato sulla formazione di atomi muonici. Se un nucleo cattura un muone negativo, questo orbita intorno al nucleo a distanza molto più piccola degli elettroni e i raggi X emessi da questo atomo esotico risentono in modo molto più netto delle dimensioni del nucleo.
     

    e.
    Vista aerea del Laboratorio di Brookhaven nel 1963 circa. Nella parte centrale superiore della foto è visibile l’Alternating Gradient Synchrotron (Ags).

     
    Con questo metodo, negli anni successivi, sono stati misurati in modo sistematico i raggi di vari nuclei. Aumentando la precisione delle misure, in tempi recenti è stato ottenuto un risultato piuttosto sorprendente: il raggio del protone misurato nell’idrogeno muonico è diverso da quello misurato con altri metodi! È quello che oggi si chiama il proton radius puzzle che intriga i ricercatori e ha stimolato nuove verifiche (vd. A stretto raggio, ndr). Un altro rilevantissimo risultato fu la verifica della violazione della “parità” nell’interazione debole (vd. Specchi imperfetti, ndr). Nel 1956 due giovani fisici teorici, Tsung-Dao Lee e Chen-Ning Yang, per spiegare il bizzarro comportamento di alcune particelle proposero che le interazioni deboli, responsabili del decadimento β dei nuclei e del decadimento del muone, non fossero invarianti per trasformazioni di parità, cioè distinguessero tra destra e sinistra. Il muone, come l’elettrone, ha uno spin che produce un dipolo magnetico e questo può avere due orientazioni nella direzione del moto: destrorsa o sinistrorsa. L’idea di Yang e Lee era che tutti i fermioni potessero avere un comportamento diverso in queste due orientazioni. Questa ipotesi può essere verificata, studiando il decadimento del muone in elettrone. Pochi mesi dopo la proposta teorica di Lee e Yang, Richard Garwin, Leon Lederman e Marcel Weinrich misurarono la direzione degli elettroni prodotti nel decadimento di muoni, di cui si conosceva l’orientazione dello spin. L’ipotesi di Lee e Yang venne così confermata e, in più, Garwin, Lederman e Weinrich ebbero la felice intuizione di mettere in rotazione il dipolo magnetico del muone e osservarono che la direzione dell’elettrone seguiva quella dello spin del muone. Da questo iniziò una lunga campagna di esperimenti per misurare il cosiddetto “momento magnetico del muone”. Esperimenti sempre più precisi, effettuati intrappolando muoni di carica positiva o negativa in un “anello magnetico”, hanno mostrato che il momento magnetico del muone ha un valore diverso da quello previsto dai calcoli teorici nell’ambito dell’elettrodinamica quantistica. Le misure e i calcoli hanno raggiunto la precisione di una parte per milione e per chiarire l’origine di quello che si chiama anche il muon g-2 puzzle si stanno progettando misure e impostando calcoli teorici che raggiungano precisioni più spinte (vd. Precisamente anomalo, ndr). I muoni, infine, sono presenti negli stati finali di molti processi subnucleari e ciò li ha resi importanti protagonisti nella scoperta di varie particelle. I bosoni W e Z, mediatori dell’interazione debole, ad esempio, sono stati osservati per la prima volta dalla collaborazione UA1 al Cern guidata da Carlo Rubbia nel decadimento in muoni. E lo stesso bosone di Higgs, nel 2012, ha dato prova della propria esistenza disintegrandosi, oltre che in fotoni, in uno stato finale con quattro muoni. “E questo chi l’ha ordinato?”, disse del muone il grande fisico statunitense Isidor Rabi, quando fu chiara la natura di questa nuova particella, che non sembrava rispondere ad alcuna necessità di carattere teorico. Settant’anni dopo, di fronte alla ricchezza della fisica dei muoni e alle conoscenze sul mondo subnucleare che ci ha fornito, non possiamo che rallegrarci della sua esistenza.
     

    f.
    Visualizzazione di un evento di produzione di una coppia di bosoni Z, prodotti di decadimento del bosone di Higgs, in cui si possono osservare quattro muoni (le linee rosse).

     

    Biografia
    Filippo Ceradini è stato ricercatore Infn, professore all’Università Sapienza di Roma dal 1987 e uno dei fondatori dell’Università Roma Tre nel 1992. L’incontro con il muone è avvenuto con la tesi di laurea nel 1970 ai Laboratori Nazionali di Frascati (Lnf), dove ora partecipa all’esperimento Kloe. Ha fatto ricerca al Cern con l’esperimento UA1, è stato tra gli iniziatori del progetto RD5 su metodi di trigger e misura di muoni in esperimenti al Lhc e poi dell’esperimento Atlas.


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    DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.1
     

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