Luci e ombre
Come si rivelano i muoni

di Tommaso Chiarusi

a.
I muoni si possono rivelare con un semplice apparato di misura, come quello mostrato in figura, costituito da una coppia di scintillatori letti da fotomoltiplicatori. Imponendo una soglia sull’ampiezza del segnale e un opportuno intervallo di coincidenza temporale, nello schermo dell’oscilloscopio appaiono i segnali elettrici prodotti quando i due rivelatori sono attraversati dallo stesso muone cosmico.
La prima esperienza con i muoni nel curriculum di un fisico avviene generalmente nei laboratori didattici, con semplici strumentazioni di misura degli “sciami” atmosferici (o shower, cioè docce, come le chiamano i fisici). Questi sciami sono composti di particelle secondarie, generate a partire dal primo impatto dei raggi cosmici con gli alti strati dell’atmosfera (vd. Voci dell'Universo, ndr). Dopo il neutrino, il muone è la particella più “penetrante”, cioè che ha perdite di energia molto contenute nell’attraversare la materia: è presente al livello del mare con un flusso di poche centinaia di eventi al secondo per m2 e un normale edificio non ne rappresenta uno schermo efficace. Dotato di carica elettrica, esso interagisce principalmente con gli elettroni del mezzo in cui si muove. L’energia trasferita al suo passaggio viene poi riceduta dalla materia come radiazione. Così, non appena attiviamo un semplice sistema di rivelazione costituito da scintillatori e fotomoltiplicatori, il segnale dei muoni può essere facilmente osservato con un oscilloscopio (vd. fig. a). Un salto in avanti ci porta ai moderni e complessi apparati sperimentali usati negli acceleratori di particelle, come Lhc al Cern. La collocazione in siti sotterranei garantisce la schermatura dai fotoni e da particelle cariche degli sciami atmosferici, eccezion fatta proprio per i muoni: a una profondità tra 50 e 100 m, il loro flusso si riduce di almeno due ordini di grandezza, con un’incidenza inferiore a poche decine di Hz per m2. Tuttavia, le apparecchiature di misura coprono aree che si estendono per centinaia di m2, esponendosi a un significativo numero di muoni al secondo. Questi potrebbero confondersi con i muoni originati nelle collisioni negli acceleratori, rischiando di contaminare misure di estremo interesse come, ad esempio, quelle dell’importante segnale in quattro muoni legato alla produzione del bosone di Higgs (vd. L'assedio all'Higgs, ndr). Il “rumore” atmosferico, come si chiama in gergo questo “fondo” sperimentale, è però facilmente eliminabile dai dati acquisiti, richiedendo che le tracce siano originate in una zona molto ristretta, compatibile con il vertice delle interazioni, e che i primi segnali misurati coincidano con i tempi delle collisioni. Per contro, i muoni atmosferici, attraversando dall’alto al basso tutto l’apparato sperimentale, sono utilizzati per l’allineamento delle strutture di rivelazione, incluso l’apparato dedicato a tali particelle: lo “spettrometro per muoni”.
 
b.
Il rivelatore L3 al Lep. Lo spettrometro era suddiviso in ottanti, ciascuno composto da 3 strati di camere a deriva. In esse, decine di fili metallici paralleli all’asse del fascio fungevano da anodo, garantendo una risoluzione spaziale nel piano trasversale di circa 50 µm. Il grande solenoide, che conteneva tutto L3, con una corrente di 30 kA, creava un campo di induzione magnetica di circa 0,5 T in un volume superiore a 1000 m3.
 

Esso è generalmente formato da strati di celle con un forte campo elettrico e riempite con gas ionizzabile. Il passaggio dei muoni è rivelato dalla migrazione degli elettroni liberati attratti sull’anodo della cella. Date le proprietà di penetrazione dei muoni, lo spettrometro è posizionato in ampi settori periferici rispetto al vertice delle interazioni, ed è generalmente permeato da un forte campo magnetico. Così, dalla misura della curvatura delle traiettorie dei muoni si può risalire alla loro energia, cui è legata in modo inversamente proporzionale. Migliore è la misura della curvatura, più piccolo è l’errore sull’energia. Uno dei primi esperimenti con gli acceleratori a sfruttare una parte dei propri apparati per la misura di muoni indotti da raggi cosmici è stato L3, attivo al collisore Large Electron-Positron (Lep) del Cern negli anni ’90 del secolo scorso. Il suo ampio spettrometro per muoni, in combinazione con uno strato di circa 200 m2 di scintillatori plastici posizionati appositamente sulla sua sommità, formavano l’esperimento L3+Cosmics, in presa dati dalla fine del 1998 fino a tutto il 2000. Il gruppo di scintillatori sulla sommità serviva a discriminare i muoni atmosferici da quelli prodotti nell’acceleratore, e faceva scattare il sistema di acquisizione dei dati di L3+Cosmics in modo completamente separato da quello standard di L3 per le collisioni del Lep. Il principale risultato di L3+Cosmics è consistito nella misura del flusso dei muoni atmosferici in un intervallo energetico da 10 a 2000 GeV (ben 10 volte oltre l’energia disponibile nelle collisioni del Lep), con una precisione complessiva migliore del 2%, cioè 10 volte maggiore della precisione con cui erano noti allora tali flussi da precedenti misure. Un’ulteriore importante misura è stata quella del rapporto del numero dei muoni positivi rispetto a quello dei muoni negativi, risultato pari a circa 1,28, cioè con una prevalenza di muoni positivi, con una precisione dell’1% su quasi tutto l’intervallo energetico. Tale rapporto è legato alla prevalenza di protoni (con carica elettrica positiva) nei raggi cosmici primari, e dà informazioni sulle interazioni di questi con l’atmosfera. Nello spettrometro era possibile separare eventi multipli appartenenti allo stesso sciame, dato importante poiché la molteplicità di muoni è legata sia all’energia che al tipo del raggio cosmico primario. Per affinare tali indagini, occorre però aggiungere altre informazioni sullo sciame, come la densità radiale delle particelle rispetto alla direzione di propagazione e il numero di elettroni. Misure impossibili sotto terra. Per questo L3+Cosmics si era dotato di una piccola rete di 50 scintillatori posti sul tetto del capannone soprastante l’infrastruttura sotterranea. Risultati più precisi sono stati ottenuti successivamente da esperimenti dedicati, con griglie di rivelatori estese dai circa 0,5 km2 di Kascade/Kascade-Grande, attivo a Karlsruhe in Germania fino al 2013, ai 3000 km2 del Pierre Auger Observatory (Pao) nella Pampa, in Argentina, ancora in presa dati. I muoni sono stati anche protagonisti delle verifiche sperimentali delle oscillazioni dei neutrini, in primis nel 1998 con gli esperimenti Super-Kamiokande, sotto il Monte Ikeno in Giappone, e Macro, nelle sale sotterranee dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Tali esperimenti hanno chiarito il cosiddetto “neutrinopuzzle atmosferico”, cioè la discrepanza del rapporto tra le abbondanze dei neutrini elettronici e muonici prodotti negli sciami atmosferici. Poiché i neutrini “parlano” soltanto attraverso la forza debole, essi possono essere rivelati solo in via indiretta, principalmente tramite la misura dei componenti carichi della propria “famiglia” (ovvero la coppia [νl , l], dove ν indica il neutrino del tipo l e l = e, μ, τ, cioè l’elettrone, il muone o il tau), in cui si convertono nelle interazioni con la materia. Misurando quindi un deficit del flusso di muoni generati nelle interazioni dei neutrini muonici atmosferici, è stato provato che circa la metà dei neutrini muonici cambiassero sapore, in accordo con la teoria delle oscillazioni che prevede la transizione da neutrino muonico a neutrino del tau. L’evidenza diretta di tale oscillazione è stata poi ottenuta dall’esperimento Opera conclusosi nel 2010 (vd. Tutte le voci dell'universo, ndr).

 
c.
Una rappresentazione artistica del telescopio per neutrini Km3net. Un neutrino muonico, interagendo con la roccia sottostante il rivelatore, si converte in un muone “relativistico” (cioè un muone che viaggia alla velocità prossima a quella della luce nel vuoto) che ne prosegue la traiettoria. Il muone, muovendosi nell’acqua del mare, emette luce Cherenkov che viene captata dai moduli ottici (i fotomoltiplicatori) del telescopio.
 
L’attuale frontiera dell’utilizzo di muoni come “firma” dell’interazione di neutrini riguarda i telescopi Cherenkov nelle profondità di laghi (Baikal-Gvd, in Russia) o mari (Antares e Km3net, nel Mar Mediterraneo) o sotto i ghiacci antartici (IceCube, in Antartide). Questi sfruttano l’effetto Cherenkov, ovvero fotoni emessi in fase dalle molecole di materia, stimolate da particelle cariche che vi si propagano con velocità superiore a quella della luce nel mezzo stesso. Poiché i fotoni Cherenkov indotti da un muone “relativistico” hanno tutti la stessa angolazione rispetto alla sua traiettoria (circa 42˚ in acqua), griglie di migliaia di fotomoltiplicatori, estese su un volume di circa 1 km3, permettono di ricostruirne la direzione con precisioni migliori di 1˚. I muoni con energie maggiori di 10 TeV mantengono circa la stessa direzione dei neutrini progenitori. È possibile, quindi, risalire alle porzioni di cielo corrispondenti per ricercarne le possibili sorgenti astrofisiche. Per verificare la precisione di puntamento, si ricorre alla misura della cosiddetta “ombra della Luna” nel flusso di muoni atmosferici. In pratica si cerca il deficit nel flusso di muoni in corrispondenza delle direzioni di arrivo dei raggi cosmici che impattano sul nostro satellite, di cui è nota la posizione, e che quindi non creano sciami. Insomma, dal più semplice esperimento didattico ai moderni e complessi rivelatori, la misura dei muoni è uno strumento fondamentale sia impiegato nelle calibrazioni degli apparati sperimentali che come oggetto di ricerche decisive nella moderna fisica astroparticellare.
 

Biografia
Tommaso Chiarusi è ricercatore Infn presso la sezione di Bologna. Attualmente è il coordinatore del sistema di acquisizione dei dati del rivelatore Km3net e studia l’ombra della Luna nei dati di Antares. In passato ha partecipato all’esperimento L3+Cosmics.


Link
http://www.astroparticelle.it/
http://l3cos.web.cern.ch/
http://www.km3net.org/


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DOI: 10.23801/asimmetrie.2017.23.4
 

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