[IA]
anno 20 numero 39 / 10.25
Biografia
Marianna La Rocca è ricercatrice in fisica applicata presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Bari, dove ha anche conseguito il dottorato in fisica applicata. È stata per tre anni postdoc alla University of Southern California. Si occupa principalmente dello studio di malattie neurologiche usando reti complesse e tecniche di machine learning.
Occhio clinico
L’utilizzo in fisica medica
di Marianna La Rocca
Per cercare le debolezze del cervello umano si può usare uno strumento ispirato al cervello stesso? È proprio questa l’idea alla base di diversi studi e ricerche scientifiche che stanno portando avanti la sfida contro le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson, nell’ambito della fisica medica. Una sfida tanto ambiziosa quanto urgente, che mette in campo una combinazione potente: intelligenza artificiale e reti complesse.
Le malattie neurodegenerative sono subdole. Agiscono lentamente e silenziosamente, spesso per anni, prima di manifestarsi con sintomi evidenti. E a quel punto, spesso, è troppo tardi. Ecco perché è cruciale individuare indicatori precoci: serve a sperimentare terapie che possano rallentare, fermare o persino invertire il decorso della malattia.
In questa missione, l’intelligenza artificiale si rivela un alleato formidabile. Ma come funziona? Pensiamo alle centinaia di connessioni che si formano ogni secondo nel nostro cervello durante l’apprendimento quotidiano, fin da quando siamo bambini. Le esperienze giocano un ruolo fondamentale nella formazione di una persona. Tutti abbiamo sentito dire almeno una volta: “si impara dai propri errori”. E indovinate un po’? È proprio vero.
Immaginiamo un bambino che si brucia toccando una pentola sul fuoco, nonostante i genitori gli abbiano spiegato che il fuoco e l’acqua bollente possono far male. Dopo quell’esperienza spiacevole, il bambino capirà non solo che toccare qualsiasi oggetto rovente è una cattiva idea, ma anche che in presenza di fonti di calore eccessivo è meglio avvicinarsi con prudenza. Grazie a questa esperienza, sarà meno incline a commettere lo stesso errore e più preparato ad affrontare situazioni simili in futuro.
Allo stesso modo, per avere un sistema di intelligenza artificiale davvero efficace, non serve trasmettergli tutta la conoscenza possibile, ma bisogna insegnargli a imparare nel modo più autonomo ed efficiente. È importante anche che possa sbagliare ogni tanto, così da poter riorganizzare le sue strategie decisionali dopo ogni tentativo fallito, basandosi sui dati che gli abbiamo fornito. Solo così il sistema acquisirà la flessibilità necessaria per adattarsi a nuovi dati e potrà esplorare, tra un errore e l’altro, strade alternative che lo porteranno a ottenere risultati sempre migliori.

b.
La figura mostra come le scansioni cerebrali ottenute con la risonanza magnetica (MRI) vengono suddivise in volumi rettangolari. Questi volumi, chiamati “patch”, vengono poi usati per costruire una rete cerebrale: ogni patch rappresenta un nodo della rete, e i collegamenti (o link) tra i nodi indicano quanto questi volumi del cervello sono simili tra loro.
Nella lotta contro le malattie neurologiche, l’IA viene spesso allenata a distinguere immagini cerebrali di persone sane da quelle di pazienti con decadimento cognitivo lieve (Mid Cognitive Impairment – MCI), una condizione spesso preludio all’Alzheimer. Non è tutto, a questi sistemi di IA vengono richiesti compiti ancora più complessi: identificare quei soggetti MCI che svilupperanno la malattia negli anni successivi. Come si riesce in quest’impresa?
Ogni immagine di risonanza magnetica cerebrale viene trasformata in una rete complessa. Proprio come una rete di aeroporti, dove ogni scalo (nodo della rete) rappresenta un piccolo volume del cervello, e ogni collegamento (“link”) misura quanto queste aree siano simili tra loro. È così che si può quantificare come le connessioni cerebrali cambiano con l’avanzare della malattia.
L’IA analizza queste reti usando indicatori matematici, ad esempio il numero di connessioni di ogni nodo, per apprendere schemi tipici delle persone sane e di quelle malate. Una volta addestrata, la macchina è in grado di riconoscere questi schemi anche in nuovi soggetti mai visti prima.
I risultati sono promettenti: con una precisione superiore all’80%, si riesce a predire lo stato clinico anche nove anni prima della normale diagnosi. Un dato impressionante, che potrebbe rivoluzionare il modo in cui affrontiamo queste patologie.
Un aspetto cruciale nello studio delle malattie neurodegenerative è la scelta della “scala” con cui si analizzano le immagini cerebrali: se è troppo grande si rischia di perdere dettagli significativi, se è troppo piccola di non cogliere il quadro d’insieme e focalizzarsi su dettagli non importanti. La “scala ottimale” è quindi quella dimensione spaziale che permette di cogliere al meglio le alterazioni caratteristiche della malattia. Una scoperta sorprendente è che questa scala ottimale varia a seconda della patologia. Dividendo il cervello in piccoli blocchi, è emerso che per l’Alzheimer l’unità di analisi ideale è di circa 3000 mm³, una dimensione simile a quella dell’ippocampo, l’area cerebrale più colpita all’esordio della malattia. Per il Parkinson, invece, la scala ottimale è di soli 125 mm³, dimensione comparabile alla substantia nigra, una delle regioni più colpite all’esordio della malattia.
Questo approccio ha un vantaggio enorme: permette di analizzare l’intero cervello in modo sistematico, senza concentrarsi solo sulle aree già note. In questo modo si evita il rischio di introdurre errori legati ai metodi di segmentazione automatica, che suddividono il cervello in aree predefinite senza un criterio specifico. Inoltre, non vincolandosi alle aree oggetto delle ipotesi preesistenti, è possibile scoprire nuove aree coinvolte nello sviluppo della patologia, aprendo la strada a scoperte fondamentali soprattutto per malattie ancora poco comprese.
Un altro elemento innovativo è rappresentato dell’uso di tecniche note come “explainable artificial intelligence”, che permettono di conoscere più a fondo le strategie applicate di caso in caso dagli algoritmi di IA. In questo modo è possibile conoscere quali sono le regioni cerebrali associate alle caratteristiche che influenzano maggiormente la discriminazione di due gruppi clinici. Questi approcci innovativi permettono una maggiore interpretabilità e affidabilità dell’IA, che è cruciale soprattutto nell’ambito medico e nell’ottica di una medicina personalizzata.
La combinazione delle reti complesse e dell’IA sta prendendo sempre più piede nel mondo scientifico e si sta rivelando molto utile anche per la diagnosi precoce di altre malattie neurologiche, come l’epilessia post-traumatica o per la valutazione dell’efficacia neurologica di diverse terapie. Il punto di forza è che le reti complesse possono essere applicate e integrate in maniera versatile e quantitativa in qualsiasi tipo di dato medico: dati genetici, dati elettroencefalografici e immagini di risonanza magnetica funzionale e strutturale.
L’IA nell’ambito della fisica medica e in particolare nella lotta contro patologie che distruggono completamente la vita delle persone colpite e delle loro famiglie, ci insegna a non lasciarci scoraggiare dai fallimenti. Anzi, è proprio da quei fallimenti che dobbiamo ripartire per riuscire a sconfiggere queste terribili malattie. Come diceva Albert Einstein, “if you have never failed, you have never tried anything new”: se non hai mai fallito, non hai mai provato niente di nuovo.
Biografia
Marianna La Rocca è ricercatrice in fisica applicata presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Bari, dove ha anche conseguito il dottorato in fisica applicata. È stata per tre anni postdoc alla University of Southern California. Si occupa principalmente dello studio di malattie neurologiche usando reti complesse e tecniche di machine learning.




