Un secondo dopo
Alla ricerca dei neutrini primordiali

di Gianpiero Mangano


a.
Un dettaglio della radiazione cosmica di fondo dei fotoni, ottenuto grazie al satellite Planck dell’Esa nel 2013.
È ormai familiare a tutti, a differenti livelli di profondità, l’idea fondamentale della teoria del Big Bang “caldo”: cioè che l’universo sia in continua espansione, a partire da uno stato iniziale molto denso e caldo (circa 13,8 miliardi di anni fa), in cui era “tutto in un punto” - che è anche il titolo di un celebre racconto di Italo Calvino (da “Le Cosmicomiche”). Ciò che oggi fa parte del nostro modo di pensare quotidiano, ha rappresentato negli anni ’20 dello scorso secolo una nuova vera e propria rivoluzione copernicana. Possiamo osservare l’universo nel corso della sua evoluzione e tracciare gli stadi attraverso i quali è passato, dalla sua infanzia sino ad oggi? La risposta è sì, e questo anche grazie al fatto che la relatività ci insegna che non è possibile trasmettere alcun segnale a una velocità maggiore di quella della luce. Questo significa che, osservando, ad esempio, una galassia a una data distanza da noi, i segnali luminosi che riceviamo ne sono una otografia scattata al momento in cui sono partiti, e ci informano sulle sue proprietà a un tempo via via più remoto, man mano che la distanza diventa sempre più grande. Se potessimo osservare sorgenti poste a distanze di 13,8 miliardi di anni luce, avremmo un’immagine dell’universo nel momento della sua nascita! Sfortunatamente, questo è impossibile se si usa la radiazione elettromagnetica (i fotoni) come messaggero, a causa di due ordini di problemi. In primo luogo, stelle e galassie si sono formate solo in tempi relativamente recenti e non erano certamente presenti quando tutto era in un punto. Anche osservando la radiazione cosmica di fondo dei fotoni (più precisamente, di microonde), il Cmb (Cosmic Microwave Background), studiata in grande dettaglio da molti esperimenti, fra i più recenti Wmap e Planck (vd. Foto d'epoca, ndr), ci si può spingere a un’epoca di circa 380.000 anni dopo il Big Bang, noto come il tempo di “ultimo scattering” dei fotoni.
In tempi anteriori, la materia era in uno stato noto come “plasma”, elettroni e protoni non erano legati a formare atomi neutri e interagivano mutuamente emettendo e riassorbendo fotoni. In queste condizioni la radiazione elettromagnetica, una volta prodotta, non era libera di viaggiare indisturbata per raggiungere oggi i nostri rivelatori, perché era assorbita e riemessa incessantemente. Vi sono due possibilità per studiare l’evoluzione dell’universo in tempi più remoti: usare altre particelle, la cui presenza lasci una traccia, anche se indiretta, su quantità che possiamo osservare direttamente, oppure adoperare il fatto che ogni particella interagisce gravitazionalmente in modo, per così dire, “democratico”, indipendentemente cioè dalla sua particolare natura. L’esempio principe della seconda possibilità è la materia oscura (vd. Lo zoo oscuro, ndr), della cui esistenza abbiamo numerose indicazioni indirette legate al campo gravitazionale che essa produce, senza il quale l’universo ci apparirebbe molto differente da quello che osserviamo. L’esempio canonico del primo tipo, che è quello che qui ci interessa, è rappresentato invece dai neutrini. Queste particelle, “inventate” dalla fantasia visionaria di Wolfgang Pauli nel 1930 per “salvare” il principio di conservazione dell’energia nel decadimento beta dei nuclei, non finiscono mai di sorprendere i fisici per le loro straordinarie proprietà. Come i fotoni, anche i neutrini popolano l’universo sin dalle origini. A differenza dei primi, interagiscono con le altre particelle soltanto attraverso le interazioni deboli che, come dice il nome, sono molto più flebili di quelle elettromagnetiche. Questo fa sì che il loro ultimo scattering abbia avuto luogo in tempi molto più remoti, addirittura circa un secondo dopo il Big Bang! In quest’epoca, l’universo era in piena attività e i neutrini erano fra gli attori principali: le loro interazioni con protoni, neutroni ed elettroni sono il primo passo che porta alla formazione dei nuclei leggeri (deuterio ed elio). Misurando oggi le abbondanze di questi elementi, tenendo anche conto di quanto è stato prodotto in tempi più recenti dalle stelle, abbiamo un modo per studiare com’era fatto l’universo nei primi secondi della sua vita e per capire meglio le proprietà dei neutrini, in modo complementare agli esperimenti di laboratorio: ad esempio, se il numero di specie di neutrini corrisponde a quanto misurato negli acceleratori (cioè tre) o se ve ne siano più di tre. I neutrini, inoltre, sono dotati di energia e come tali producono un loro campo gravitazionale. Questo influenza, secondo la teoria della relatività generale, la velocità di espansione dell’universo, che pertanto possiamo verificare in tempi così remoti!
 
b.
Tempi di ultimo scattering per le onde gravitazionali primordiali (10-36 secondi), i neutrini cosmologici (1 secondo) e i fotoni della radiazione di fondo (380.000 anni). Come si vede, i neutrini del Cosmic Neutrino Background (Cnb) forniscono informazioni sullo stato dell’universo nei suoi primi secondi di vita.



 
c.
Il prototipo su piccola scala di Ptolemy, installato al Princeton Plasma Physics Laboratory nel febbraio 2013.
 
Ma forse il ruolo dei neutrini nell’universo potrebbe portarci ancora più lontano. Vi sono, infatti, modelli teorici che prevedono che la ragione del fatto che nell’universo oggi osserviamo soltanto materia e non antimateria sia legata proprio a una proprietà che solo i neutrini possono possedere, ossia di coincidere con le loro antiparticelle, gli antineutrini. In questo caso i neutrini portano il nome di uno dei più brillanti fisici italiani di tutti i tempi e si chiamano “neutrini di Majorana” (vd. Misteri sfuggenti, ndr). Se questi modelli venissero confermati, potremmo avere un’immagine dell’universo all’epoca nella quale è scomparsa l’antimateria, in pratica quando tutto era in un punto! Si è detto che tutte le osservazioni astrofisiche concordano sul fatto che i neutrini sono stati prodotti fin dalle prime fasi di evoluzione dell’universo, così come i fotoni della radiazione cosmica di fondo. Lo deduciamo dalla formazione dei nuclei leggeri e dalle proprietà misurate del Cmb. Tuttavia, abbiamo già osservato che queste informazioni ci danno un’evidenza solo indiretta della loro presenza. Altra cosa sarebbe poter fare un esperimento di laboratorio qui sulla Terra che li misurasse direttamente. Per i fisici questa rappresenta, in un certo qual modo, la via maestra per poter pervenire a una scoperta. Quale che sia la posizione, per così dire, filosofica su cosa debba intendersi per scoperta, di una cosa siamo ragionevolmente certi: se i neutrini sono stati fra gli attori nelle fasi antiche del Big Bang, allora oggi siamo circondati da un gran numero di queste particelle, chiamate “neutrini primordiali” o “cosmologici” (per distinguerli da altri neutrini di diversa origine). I neutrini primordiali costituiscono un “fondo” analogo ai fotoni della radiazione cosmica di fondo: il Cosmic Neutrino Background (Cnb). Perché dunque non pensare di catturarli con un qualche telescopio a neutrini? L’idea non è stravagante e vi è un precedente rilevante, la misura del Cmb fatta in maniera inaspettata da Penzias e Wilson nel 1964, i quali, lavorando con un nuovo tipo di antenna per microonde, rivelarono un debole rumore di fondo non attribuibile ad alcuna sorgente astrofisica o a sorgenti terrestri note.
 
d.
L’idea di base dei “telescopi” a trizio è di rivelare indirettamente i neutrini del fondo cosmico facendoli interagire con nuclei di trizio (un isotopo dell’idrogeno). Nel processo di cattura di questi neutrini (a destra) i nuclei di trizio emettono elettroni che hanno un picco di energia (in viola nel grafico) spostato di 2mνc2, cioè di due volte l’energia di riposo dei neutrini, rispetto al valore massimo della distribuzione di energia (curva blu nel grafico) degli elettroni emessi nel decadimento beta del trizio (a sinistra).



 
Se ciò fosse possibile anche per il caso del Cnb, potremmo verificare alcune delle proprietà che, predette teoricamente o misurate indirettamente, riteniamo di conoscere: dovremmo, per esempio, contare all’incirca 340 neutrini e antineutrini del fondo per centimetro cubo (un numero enorme rispetto, ad esempio, ai neutrini che provengono dal Sole!), distribuiti in maniera “democratica” nelle tre specie note, e di velocità molto minore della velocità della luce, per almeno due delle tre specie. Il problema di una misura diretta del Cnb sta nel fatto che a differenza dei fotoni, che interagiscono con la materia (di cui sono fatti gli strumenti di misura) attraverso le interazioni elettromagnetiche, i neutrini interagiscono esclusivamente attraverso le ben più flebili interazioni deboli, il che rende la loro rivelazione estremamente difficile. Da decenni, si propongono metodi e si avanzano idee su come costruire un telescopio per il Cnb. Quasi tutte, purtroppo, sembrano di difficile, se non impossibile, realizzazione in un futuro prossimo, con forse un’unica eccezione: un telescopio a trizio. Sulla base di una vecchia idea di Steven Weinberg, che scrivendo nei primi anni ’60 pensava però che l’effetto fosse misurabile per una proprietà dei neutrini legata al celeberrimo “principio di esclusione di Pauli” (vd. [as] Masse estreme., ndr) e non alla loro massa, l’esperimento Ptolemy al Plasma Physics Laboratory di Princeton si propone di rivelare i neutrini (e gli antineutrini) primordiali osservando la traccia che lasciano quando interagiscono con nuclei di trizio: catturando un neutrino, un nucleo di trizio emette un elettrone di energia cinetica superiore a quella massima degli elettroni prodotti nel normale decadimento beta del trizio (vd. fig. d). Si stima che un bersaglio di 100 grammi di trizio possa produrre circa 10 eventi all’anno di cattura di neutrini primordiali. La sfida sperimentale è notevole, perché si tratta di costruire un rivelatore con una risoluzione in energia inferiore all’eV, ma un prototipo in scala è già in funzione e capiremo presto se siamo sulla buona strada per osservare i più antichi messaggeri dell’universo.
 

Biografia
Gianpiero Mangano è un ricercatore dell’Infn della sezione di Napoli. Si occupa di cosmologia, fisica del neutrino e gravità quantistica. È autore di oltre 120 articoli scientifici e di una monografia, “Neutrino Cosmology” pubblicata dalla Cambridge University Press.


Link
http://ithaca.unisalento.it/nr-7_2016/index.html


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