L’archetipo della complessità
Verso una comprensione del cervello
di Alessandro Treves

I due emisferi cerebralia.
I due emisferi cerebrali in un’incisione dall’opera del neuroanatomista belga Andreas van Wesel (1514-64), detto Vesalius, che fu professore a Padova.
Che il cervello sia un sistema complesso sembra ovvio, con la sua organizzazione a molteplici livelli. Meno immediato però è comprenderne la natura di sistema disordinato. Eppure, è il disordine la chiave che permette alla fisica di entrare nella complessità del sistema nervoso, e di entrarci avendo qualcosa da dire.
Spesso, chi dalle scienze cosiddette esatte viene attratto verso lo studio della mente umana rimane sorpreso nello scoprire due cose. La prima è che oltre a tutti i livelli sottostanti, molecolari e cellulari, sbrigativamente riassunti nel concetto riduzionista del “neurone” come unità elementare, anche al livello delle reti neurali il nostro cervello si avvale di componenti ben distinte. Le reti della corteccia cerebrale sono completamente diverse, ad esempio, da quelle del cervelletto o dei gangli della base, eppure devono operare di concerto con loro per produrre attività cognitiva. Questo già causa qualche sbandamento in chi pensa a un facile travaso di analisi fra intelligenza naturale e sistemi di intelligenza artificiale, che di norma non fanno uso di tale diversità. I diversi tipi di reti che animano la nostra mente implicano fra l’altro che è illusorio pensare di separare del tutto l’analisi delle reti da quella delle unità che le costituiscono, visto che reti diverse sono costituite da neuroni di tipo diverso, connessi con sinapsi dalle proprietà differenti.
La seconda sorpresa è che il nostro cervello è sostanzialmente lo stesso di quello di tutti gli altri mammiferi, e quindi il suo design è stato formulato – ragionevole ipotesi – oltre duecento milioni di anni fa, quando ci siamo differenziati dai rettili. Non solo, ma molte delle sue componenti, come appunto il cervelletto e i gangli della base, sono sostanzialmente le stesse anche in altri vertebrati, e in alcuni casi si può argomentare che risalgano ad almeno mezzo miliardo di anni addietro. Non male per dei chip disegnati dal procedere cieco dell’evoluzione, che una ne fa e cento ne sbaglia. La generale continuità del “progetto cervello” su questo enorme lasso di tempo, pur considerando alcune importanti innovazioni (peraltro introdotte, a quanto si può inferire, già nella sua prima metà), mette in crisi l’idea che l’organizzazione del cervello umano sia stata ottimizzata per consentire lo sviluppo della cognizione umana, di cui abbiamo evidenze convincenti soltanto per gli ultimi cinquantamila anni, suppergiù.

Una rete neurale che nel cervello non esisteb.
Una rete neurale che nel cervello non esiste. Neuroni corticali in sospensione sono stati usati come bio-inchiostro per una nuova tecnica di stampa in 3D. I colori sono stati assegnati al computer.
 
Questa seconda considerazione è spiazzante non solo per il creazionismo, o per l’umanesimo fondamentalista di chi vorrebbe trincerarsi dietro un muro di differenze strutturali, fra noi e le altre specie animali, ma anche per chi, mosso dal desiderio di capire com’è che funzionano tanto bene, cerca nell’organizzazione delle nostre reti neurali tracce concrete di uno sforzo di ottimizzazione, che chissà perché l’evoluzione avrebbe dedicato esclusivamente a noi. Fra questi, anche coloro che in pur pregevoli studi di modelli astratti di reti neurali applicano principi variazionali importati dalla fisica matematica, atti ad affinare uno strumento buono e a renderlo perfetto. Come se noi, e solo noi, fossimo arrivati al culmine del percorso evolutivo, guidati da un ingegnere perfezionista. Quand’è invece che la fisica, ovvero la matematica sviluppata dai fisici, ha contribuito effettivamente alla comprensione del cervello? Quando ne ha abbracciato la natura di strumento impreciso, che si trova a operare in un mondo cangiante e poco prevedibile, arrangiandosi in gran parte con materiali di risulta (il concetto di “exaptation”, il riutilizzo di reti preesistenti per processi cognitivi sviluppati in seguito), ricavati da quella “nave sanza nocchiere in gran tempesta” che è l’evoluzione delle specie. In altre parole, quando ha messo in luce i vincoli e le limitazioni derivanti dalla sua natura di sistema disordinato.
Un esempio è stata l’applicazione delle tecniche matematiche di analisi dei vetri di spin, nel cui sviluppo ha giocato un ruolo centrale Giorgio Parisi, alla comprensione dei limiti cui soggiace la funzionalità dell’ippocampo. Inserito all’interno dei nostri lobi temporali, l’ippocampo è essenziale per la formazione delle memorie complesse, fra cui quelle autobiografiche o relative a contesti specifici o a episodi accaduti e non ripetuti. Proprio in virtù di questa funzione alquanto generica, più che pensare all’ippocampo come a un sistema disegnato od ottimizzato per un particolare compito ben definito, ha senso vederlo come una compagnia di attori, i suoi neuroni, disponibili a mandare a memoria e poi a rappresentare qualunque dramma gli venga proposto dal mondo. I metodi della fisica statistica ci dicono però che c’è un limite al numero di drammi che questi attori possono mandare a memoria: prima che, per impararne altri, se li dimentichino, devono essere trascritti altrove. Non solo, ma per andare vicino al limite e utilizzare quindi appieno la sua capacità di ricordare, l’ippocampo deve ricevere i “testi” in una formulazione adeguata, che minimizzi la possibilità di confondere gli uni con gli altri. Come fa?
Come faccia ce lo suggerisce l’evoluzione. In modi diversi in diverse classi di vertebrati. Infatti, l’ippocampo, o meglio una struttura a esso omologa, con la stessa origine embrionale, è presente addirittura anche nei pesci e anche in loro si è visto che serve a formare memorie spaziali. Con una circuiteria interna però organizzata diversamente, in maniera più semplice. In noi mammiferi, la sua organizzazione interna è caratterizzata da una rete di ingresso, sorta di preprocessore, chiamata “giro dentato”, che non è presente negli altri vertebrati. Ad esempio, non negli uccelli, alcune specie dei quali godono però di una memoria prodigiosa per i contesti spaziali, che dipende dal loro ippocampo. L’analisi dei modelli di rete ci dice che il giro dentato dei mammiferi ha le caratteristiche giuste per formulare le rappresentazioni che gli attori dell’ippocampo devono mandare a memoria. Forse non la formulazione ottimale in assoluto, ma una adeguata alla disordinata varietà di contenuti da rappresentare. Una soluzione a quanto pare non adottata dagli uccelli. Come faccia il loro ippocampo a mandare le parti a memoria, dobbiamo ancora capirlo.
Per fortuna di chi ci lavora, la comprensione della complessità dei meccanismi neurali, a dispetto dell’impressione che può essere prodotta dal bombardamento mediatico, sta muovendo soltanto i suoi primi passi.


Il sistema nervoso dell’essere umano (sopra) e del ratto (sotto)c.
Il sistema nervoso dell’essere umano (sopra) e del ratto (sotto) condividono le stesse componenti, come del resto gli altri mammiferi e, in parte, anche gli altri vertebrati.
 

Biografia

Alessandro Treves ha studiato fisica teorica a Firenze e a Roma, ma durante il PhD a Gerusalemme, con Daniel Amit, si è appassionato alle neuroscienze, a cui si è poi dedicato.


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DOI: 10.23801/asimmetrie.2022.32.4