[as] radici
Rutherford e il sogno degli alchimisti.

di Nadia Robotti
storica della fisica

a.
Rutherford con il suo apparato (1919).
Il fatto che alcuni elementi (i cosiddetti “elementi radioattivi”) non fossero immutabili nel tempo, ma si trasformassero spontaneamente in altri elementi, emettendo “radiazioni” secondo regole precise, fu ipotizzato da Rutherford già nel 1902, e successivamente dimostrato sperimentalmente. Per queste scoperte, nel 1908, a Rutherford venne assegnato il Premio Nobel per la Chimica. Ma un conto è guardare, studiare, spiegare un fenomeno apparentemente miracoloso, che accade spontaneamente in Natura, quale la radioattività, un altro è riuscire a trasformare un elemento in un altro con mezzi di laboratorio: sarebbe come trovare la pietra filosofale degli alchimisti capace di trasmutare il piombo in oro. È quello che verrà realizzato nuovamente da Rutherford, ma nel 1919.
Sulla base di alcuni esperimenti sulla diffusione delle particelle α (nuclei di elio) attraverso materiali pesanti, compiuti sotto la sua guida da Hans Wilhelm Geiger e Ernest Marsden, nel 1911 Rutherford scoprì il nucleo atomico e sviluppò la teoria della diffusione singola nell’approssimazione (legittima per gli atomi pesanti) che il moto del nucleo bersaglio si potesse trascurare. Successivamente incaricò un suo giovane collaboratore, Charles Galton Darwin (nipote del grande naturalista), di generalizzare questa teoria al caso di diffusione di particelle α attraverso materiali leggeri, in cui si doveva tener conto anche del moto del nucleo urtato. La teoria di Darwin del 1912 venne sottoposta a verifica sperimentale nel 1919 dallo stesso Rutherford.
Usando come materiale diffusore l’idrogeno, egli scoprì che, in accordo con la teoria di Darwin, le particelle α, nel passaggio attraverso il gas, mettevano in moto i “nuclei di idrogeno” (le “particelle H”), i quali producevano sullo schermo scintillazioni molto più deboli di quelle delle α, ma avevano un percorso medio circa quattro volte maggiore.
Un “effetto sorprendente” si verificò quando nell’apparato venne introdotta dell’aria secca: il numero di “scintillazioni H” aumentava considerevolmente. Era chiaro che le particelle α, nel passaggio attraverso l’aria, avevano dato origine a ulteriori nuove “particelle H”, rispetto a quelle attribuibili alla sorgente.

Attraverso un’accuratissima indagine sistematica, Rutherford riuscì a stabilire in modo inequivocabile che esse provenivano dall’azoto presente nell’aria. La sua conclusione fu che alcuni nuclei di azoto erano stati disintegrati dall’impatto con una veloce particella α ed erano state espulse “particelle H”, ovvero “nuclei di idrogeno”, il che equivaleva a dire che il nucleo di idrogeno era “uno dei componenti con cui è fatto il nucleo di azoto”. A questo nuovo componente nucleare, nel 1920, Rutherford diede il nome di “protone”.
Successivi esperimenti di Rutherford, assieme a James Chadwick, confermarono che le particelle α erano in grado di espellere i protoni anche dai nuclei di molti altri elementi leggeri.
Il metodo della scintillazione non era però in grado di dare informazioni dirette sul meccanismo della collisione e sulle disintegrazioni nucleari avvenute. Rutherford suggerì allora di utilizzare una camera di Wilson, che consentiva di visualizzare le tracce di particelle ionizzanti in un mezzo gassoso. L’esperimento fu compiuto nel 1924 da un altro suo collaboratore, Patrick Blackett, che studiò le α diffuse dall’azoto, individuando circa 270.000 tracce. Molte di queste avevano una struttura a “forcella”, in cui la traccia della particella α incidente si divideva in due, una dovuta alla α diffusa, l’altra, più corta e più larga, dovuta al nucleo di azoto urtato, a testimonianza dell’avvenuta collisione elastica tra la α e l’azoto. Però, oltre a queste forcelle normali, Blackett ne trovò otto di “un tipo diverso”, con una traccia molto sottile, attribuibile al protone, e l’altra simile a quella lasciata dal nucleo di azoto in una forcella normale. Richiamandosi a quanto già previsto da Rutherford, Blackett concluse dunque che la α (di numero atomico Z = 2), nell’urto con il nucleo bersaglio, veniva da questo assorbita mentre veniva espulso un protone (Z = 1). Quindi, tenendo conto dei numeri atomici, si poteva affermare che il nucleo originario, a seguito della collisione con una α, si era trasformato in un nuovo nucleo, di specie chimica diversa: in questo caso l’azoto (Z = 7) era stato trasformato in ossigeno (Z = 8).
Così, sempre sotto l’indicazione e la supervisione di Rutherford, non solo veniva provata la possibilità di disintegrare gli atomi con le particelle α, ma veniva indicato anche il modo in cui queste disintegrazioni avvenivano e come un elemento poteva essere trasformato in un altro, realizzando, così, in un certo senso, il vecchio sogno degli alchimisti!
Inspiegabilmente, queste ricerche non furono premiate con un Nobel per la Fisica e il solo premio assegnato a Rutherford rimase quello per la Chimica del 1908.

 
b.
L’apparato sperimentale di Rutherford. Si trattava di un tubo di bronzo lungo 18 cm, che, tramite due rubinetti, veniva riempito con il gas da studiare. La sorgente di particelle α, (A), era posta su un supporto mobile lungo una sbarra. Un estremo del tubo era chiuso da una sottile lamina metallica (L), di fronte alla quale, a una distanza di 2 mm, all’esterno del tubo, era posto lo schermo di solfuro di zinco (S), su cui venivano rivelate le particelle α e i nuclei diffusi (attraverso le scintillazioni prodotte su di esso).
 


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